La beffa (linguistica) della "crisi"

"Cosa vuoi, sono tempi di crisi..." 
Quante volte abbiamo sentito dire questa frase? E quante volte l'abbiamo sentita intonare con quei tre punti di sospensione finale, quasi che l'unica soluzione alla suddetta "crisi" fosse una sorta di rassegnazione esistenziale? Ecco, io la penso in modo diverso. Penso che basterebbe tornare alla radice della parola per capire quanto il rassegnarsi in tempi di "crisi" sia l'ultima cosa da fare. Forse, dopo aver letto questo post, tu la penserai un po' come me. O forse no...


In tempi di crisi non si crea (o, almeno, diventa più difficile farlo).
Il fatto è che la "crisi", di solito, ci agita parecchio, il che ci rende paradossalmente statici. In crisi siamo (at)tirati da cariche opposte, bipolari, che si annullano a vicenda. Oscilliamo tra momenti "wow" e "down", sopraffatti dall'indecisione, dal timore di compiere un passo falso, finché il tempo non prende il sopravvento, il vento non tira contrario e quei momenti finiscono per diventare tutti uguali - cioè tutti, indistintamente, "critici".

A uno scrittore in crisi succede spesso di "andare in blocco" - nel senso di diventare tutt'uno col suo blocco bianco che più bianco non si può (ché tra ipse dixit e Dixan è un attimo, si sa). L'emisfero destro del cervello, quello più creativo, si rifiuta di collaborare col suo gemello sinistro, quello più analitico, e l'autocritica "costruttiva" diventa solo "distruttiva".
Un vero e proprio gioco al massacro sì, ma solo con se stessi.

"Nulla si crea e nulla si distrugge. Tutto si trasforma", diceva Lavoisier. Okay, la fisica qui non c'entra niente, ma va da sé che per "distruggere qualcosa" prima è necessario "crearlo" e che, se nulla si "crea" e nulla si "distrugge", non ci si può neanche "trasformare". Il che sarebbe grave.

"Staticità di crisi", la potremmo chiamare; oppure, con un'espressione ancora più brutta che sa di economia glaciale, "staticità critica".

A me che scrivo succede spesso di piombare in questa crisi creativa, in questa sorta di blocco comunicativo in cui divento critica verso me stessa al limite del distruttivo. E mi succede ancora di più quando decido di rompere un equilibrio prestabilito per mettermi in gioco.

Crisi.
Critico.

Due parole che tornano di continuo e che sembrano collaborare meglio degli emisferi del mio cervello - anzi, potremmo dire che una collaborazione esclude l'altra.

Ci stavo riflettendo giusto ieri, mentre ticchettavo la penna sulla pagina bianca e assorbivo l'ennesima frase televisiva sulla crisi del nostro Paese: "Siamo in un momento di crisi. Un momento in cui bisogna fare delle scelte coraggiose e prendere delle decisioni nette che annullino le interferenze".

E io pensavo: "Ecco sì, bravi... fatelo! Fatele 'ste scelte! Prendetele 'ste decisioni! Trovate le soluzioni per uscire da 'sta crisi una volta per tutte!" Il coro da stadio lo urlavo tra me e me, ovviamente, dato che, chiamami pure "illusa", nutro ancora fiducia in questo Paese e penso che sia proprio nei momenti di crisi che la politica - o quel che di buono ne resta, almeno - debba svolgere il suo ruolo di "punto di riferimento", dando ai cittadini risposte che stanno proprio nelle scelte coraggiose e nelle decisioni nette di cui sentivo parlare in tivvù.

Scelte.
Decisioni.

Altre due parole che tornano insieme, di continuo, e che sembrano collaborare alla grande con quelle di "crisi" e di "critico". Ci hai mai fatto caso? Io no, mai. Non prima di ieri quando, sull'onda delle notizie televisive, sono tornata a fissare la pagina bianca, rendendomi conto di quanto questi termini fossero connessi. Crisi, critico, scelta, decisione: una sorta di "trenino semantico". Ultimamente, poi, concentrandomi sulla mia "crisi personale" - che certo sarà dipesa da quella globale, ma solo in parte - ho pensato che, in fin dei conti, se la "crisi" è mia, solo io posso uscirne. Solo io posso "governare" la barca della mia vita in modo tale da tenere la rotta fissa sul percorso da intraprendere e posso farlo solo facendo delle scelte coraggiose e prendendo delle decisioni nette. Insomma, si torna sempre lì, al "trenino semantico". Finally, sperando di sbloccarmi, ho chiuso il blocco per aprire il vocabolario etimologico.

Etimo.logico
Cosa significa "crisi"? Qual è l'etimologica di questa parola che ci suona tanto antipatica? Partendo da queste domande base, sono scesa nelle spirali della lingua per scoprire che il significato di "crisi" è meno "infernale" di quanto avremmo potuto immaginare. La parola, infatti, deriva dal verbo greco krino (distingueregiudicare, sceglieredecidere) e dal corrispondente sostantivo krìsis (scelta, decisione). Ecco, dunque, svelato il mistero del "trenino semantico": è la radice stessa della parola, quella da cui nasce, cresce e si espande, a comprendere le altre. D'altronde quand'è che siamo spinti a fare delle scelte coraggiose? Quand'è che siamo costretti a prendere delle decisioni nette? Nei periodi di "crisi", di "passaggio", in cui diventa necessario fare un cambiamento (spesso) forzato.

Uscire dalla zona di comfort
Diciamolo chiaro: l'essere umano, per sua stessa natura, sarebbe poco portato verso il cambiamento, soprattutto quando quel cambiamento comporta la rottura di un equilibrio prestabilito. Siamo esseri stanziali, che amano e cercano la stabilità, appunto (fisica, finanziaria o emotiva che sia). Non c'è nulla di male in questo; anzi, è la stessa società in cui viviamo a reggersi sui pilastri della stabilità. Lo stipendio. Il mutuo. Il matrimonio. La famiglia. Tutti, prima o poi, siamo spinti a cercare dei punti fissi, dato che quasi tutti - poiché, ahimè, per molti non è stato così - siamo cresciuti in una casa, in una famiglia, da genitori che hanno lavorato per soddisfare i nostri bisogni. Ovvio, quindi, che ci sentiamo più sicuri a replicare un "modello sociale" preSTABILIto. Ripeto: non c'è niente di male in questo. Il male sta nel voler perpetrare quel modello a tutti i costi, anche quando ci rendiamo conto che non va più bene per noi e che la vita ci sta mettendo di fronte al fatto che sarebbe arrivato il momento di apportare un cambiamento.

I momenti in cui capiamo che "qualcosa non va" sono i "momenti critici" di cui parlavamo all'inizio. Quelli che nella realtà potrebbero corrispondere a periodi lunghissimi, in cui siamo così sopraffatti da stimoli opposti che finiamo per rimanere immobili, fatalmente indecisi di fronte a scelte e decisioni che lo stesso concetto di "crisi" si porta dietro. Meccanismo, questo di opposizione al cambiamento, ch'è spesso difensivo e che dovremmo cercare di evitare. Alla lunga, l'immobilità può diventare normalità con conseguenze disastrose sulla nostra personalità. Insomma, sta a noi scegliere, decidere appunto, quale storia desideriamo vivere e come vogliamo viverla, se da eroi epici oppure tragici.

Avere spirito di adattamento
L'avrai capito: nei momenti di crisi "finché la barca va, lasciala andare" anche no. Sono momenti in cui dobbiamo reagire, invece. Valutare. Scegliere. Decidere. Prendere in mano le redini - i remi - della nostra vita, assumerci i rischi per non rischiare d'affondare e per affrontare il cambiamento con portamento fiero. In "crisi", l'imperativo è: mai arrendersi. Mai tirare i remi in barca.

Certo è più facile a dirsi che a farsi. Il modello di vita a cui siamo abituati non sarà il massimo forse, ma - proprio perché trattasi di un modello consolidato - ha il vantaggio di farci sentire sicuri. Di salti nel buio, al contrario, ne sappiamo poco e, quindi, non ci piacciono affatto. Inutile negarlo.
Tuttavia, ricordi cosa abbiamo detto a proposito della legge di Lavoisier? Per "distruggere" bisogna prima "creare" e se non si "crea" e non si "distrugge" nulla non ci si può nemmeno "trasformare". Il che sarebbe grave. Ecco che adesso abbiamo dato un senso a quel "grave". Perché se è vero che l'essere umano è più portato verso la stabilità che verso il cambiamento, è altrettanto vero che il cambiamento, per l'essere umano, così come per ogni essere vivente, è vitale. In natura non esiste nulla che stia fermo. La vita, per sua stessa definizione, muta di continuo. E se non siamo in grado di mutare, di rinnovarci, di stare al passo, allora non ci resta che morire. Sopravvive solo chi è in grado di adattarsi, altrimenti qualcosa rischia d'incrinarsi - mi è venuta in mente, a questo proposito, la metamorfosi della crisalide, che muta per rinascere a nuova vita (anche se, così come per "incrinarsi", la sua etimologia non ha niente a che fare con quella di "crisi").

A questo mondo, dicevamo, sopravvive solo chi ha "spirito d'adattamento" e - finalmente una notizia buona in un mare di "mai una gioia" - possiamo affermare che la maggior parte degli esseri umani ne sono dotati. Anzi, ci riesce meglio adattarci a un cambiamento avvenuto che decidere di farlo noi, di nostra iniziativa, quel cambiamento. E questo accade proprio perché, di base, siamo esseri stanziali. Ma, a differenza delle piante e della maggior parte degli animali, noi possiamo permetterci di andare in crisi, di metterci in discussione, di prenderci del tempo per riflettere su quello che non va così da poter scegliere, decidere, il modo migliore per cambiare le cose. La "crisi", insomma, ci dà l'occasione di mettere la vita in stand by, di disinnescare il pilota automatico con cui conduciamo il flusso frenetico del nostro quotidiano, di tornare alla guida, di rivoluzionarne la mappa, di cambiare una rotta sbagliata. I "momenti di crisi" ci costringono a farlo. Esigono di trovare delle soluzioni per uscire dallo stato d'immobilità, di prendere l'iniziativa, di fare quel passo che sappiamo necessario ma che, in fondo, temiamo.

D'altronde, se siamo andati in crisi ci saranno dei motivi, no? Certo, i motivi possono essere tanto interni e dipendere da noi, quanto esterni e dipendere da fattori che vanno al di là del nostro controllo. Ma è proprio quando ci sfugge tutto di mano che possiamo, e dobbiamo, riprenderlo di nuovo in mano quel tutto. Okay, forse non saremo tipi da gesti eroici, ma la vita è pur sempre la nostra e sta a noi scriverne la storia; sta a noi decidere se ignorare i segnali critici per evitare il cambiamento o se scavare fino in fondo per dare una svolta positiva alla nostra vita.

Controllare ciò che si può
È proprio significato del greco krìno a suggerirci come dovremmo ragionare nei momenti di "crisi":

distinguere ciò che possiamo fare perché dipende da noi, da ciò che non possiamo fare perché non dipende da noi
giudicare, possibilmente senza farci influenzare dalle critiche o dall'eccessiva autocritica, ciò che va bene o che va male
infine, quando - grazie a queste azioni di adattamento abbiamo un quadro più completo della situazione e siamo, quindi, in grado di valutarla meglio
scegliere, decidere quali passi fare per uscire dallo stato d'immobilità critica generale

Se i motivi della "crisi" sono interni c'è sempre qualcosa che possiamo controllare, su cui possiamo concentrarci per fare la differenza. Se sono esterni, invece, dobbiamo concentrarci sui "parametri controllabili", perché sarebbe tempo sprecato dannarsi per ciò ch'è al di fuori del nostro controllo. Un concetto, questo, che nei momenti di "crisi" capiamo perfettamente. Quasi che le difficoltà acuissero l'intelletto, riusciamo a distinguere in modo netto ciò che possiamo o non possiamo fare; ciò che non ci va (fa) bene dal contrario; riusciamo a giudicare lucidamente un'azione positiva da quella negativa. E più riusciamo a farlo in fretta, meno sosteremo in quello "stato di crisi" che potrebbe diventare controproducente.

Aggiungere l'ultimo tassello
A questo punto avrai notato che l'etimologia della parola "crisi" non parla affatto di "cambiamento", limitandosi al "trenino semantico" di "giudizio", "distinzione", "scelta" e "decisione". Potremmo dire, allora, che il "cambiamento" è una diretta conseguenza, o almeno dovrebbe esserlo, dei quattro concetti espressi dal verbo e dal sostantivo greco. Ma è solo con la definizione della parola "crisi" che arriviamo a completare il nostro puzzle:

  • "crisi" è il momento che separa una maniera d'essere da un'altra ch'è differente; o, detta in altro modo, è il passaggio repentino da uno stato all'altro

Boom! Ecco che, nella definizione della parola, troviamo finalmente il cambiamento - il  "passaggio repentino da uno stato all'altro" - l'ultimo tassello di quello che appare come un vero e proprio "processo" (infatti l'etimologia della parola parla anche di "giudizio").

Il "momento di crisi" sta proprio nell'incertezza che ci provoca quel "passaggio" che, appunto, deve essere "repentino" per non rischiare di trasformarsi in "stallo" e che, allo tesso tempo, risulta essere "critico" perché dobbiamo scegliere, decidere, in fretta se spostarci da una situazione che non va più bene, ma che abbiamo il vantaggio di conoscere, a una che potrebbe andare meglio, ma di cui non è dato conoscere l'esito. La definizione poggia, quindi, sulla radice etimologica e stigmatizza il "cambiamento" come sua conseguenza diretta. Non a caso, "crisi" è una parola che si trova in diversi ambiti: medico biologico (uscire dallo stato di crisi di una malattia o di un virus); psicologico (crisi di coscienza; adolescenziale; d'identità); sportivo (crisi da classifica); commerciale (crisi economica, intesa come sospensione del commercio, del movimento di scambio).

Tirare le somme
I "momenti di crisi" sono campanelli d'allarme in cui la vita, per motivi più o meno controllabili, ci sta dicendo che qualcosa non va nel "modello" che ci siamo imposti e che è giunto il momento di cambiarlo. Il più delle volte li consideriamo momenti negativi, in cui ci sentiamo persi per mesi - o addirittura per anni - tra l'indecisione di compiere un passo e la consapevolezza che quel passo, prima o poi, dovremo farlo. La terra ci trema sotto i piedi e noi ci opponiamo strenuamente al terremoto, attaccandoci a qualsiasi cosa abbiamo intorno pur di non dover rinunciare alla nostra "finta" stabilità. Così facendo, però, rischiamo di restare fermi per un lasso di tempo che potrebbe trasformarsi in un buco nero. E questo, se vogliamo sopravvivere, non possiamo proprio permettercelo. Ci vuole spirito d'iniziativa, oltre che di adattamento.

Torniamo, quindi, alla radice della parola "crisi" per capire quanto i "momenti critici" siano quasi fisiologici, portatori d'un cambiamento necessario al rinnovamento della vita. Senza un "processo di crisi" nulla si crea, nulla si distrugge e nulla si trasforma. Nulla "processa", appunto. Non in natura, almeno. Approfittiamo, quindi, dei "momenti di crisi" per mettere freno a una vita dai ritmi frenetici e prendiamoci del tempo per noi stessi, per riflettere, per porci domande profonde, per rinnovarci magari. Far finta di niente non serve. Rispondiamo alla sfida che la vita ci impone. Immergiamoci nel "processo critico". Giudichiamo(ci) senza arrivare a distruggerci. Decidiamo. Scegliamo. Troviamo il punto di svolta per cambiare di slancio un modello di vita abusato.

Finché c'è crisi, c'è speranza
Scrittore in crisi non crea e si distrugge spesso di autocritiche senza riuscire a trasformarsi in meglio, dicevamo. Ma forse la verità è che, attraverso la crisi, lo scrittore si processa naturalmente, dove "processo" è da intendersi più in senso informatico che giuridico. Lo scrittore in crisi non crea per distruggersi, (ri)crearsi e trasformarsi. Ogni tanto, insomma, bisogna resettare un po' di cose e per farlo tocca distruggere ciò che fino a quel momento ha funzionato, ma che ora non funziona più.

Nel concetto di "crisi", in fondo, è sempre insita la speranza di un cambiamento; se in meglio o in peggio, questo non è dato saperlo: l'incognita fa parte del gioco della vita ed è meglio non tirarsi mai indietro di fronte alla sfida. Alla lunga, sarebbe un gioco al massacro con noi stessi. Un fallimento, diciamo. Tanto che, quando sostiamo troppo in un momento di crisi, continuando a perpetrare ciò che non va più bene per noi e rifiutandoci di fare le scelte che ci porterebbero invece a un cambiamento salutare, finiamo per sentirci esattamente così: falliti.

Il fatto è che spesso, prima di poter cambiare, dobbiamo accettare di aver sbagliato, chiedere il conto a noi stessi, farci un vero e proprio "processo", appunto, e questo ci abbatte a tal punto da annullare qualsiasi spirito d'iniziativa, qualsiasi scelte, qualsiasi decisione. Dimentichiamo che dal fallimento possono nascere grandi cose; e che anzi, è proprio attraverso il fallimento, la caduta e la distruzione, che possiamo arrivare e conoscere i nostri limiti, a imparare dai nostri errori e a rialzarci in piedi per aggiustare il tiro e trasformarci in una versione migliore di noi stessi.

Hai presente, no, come fanno le foglie degli alberi che cadono per poi rinascere. O i fiori. O i frutti che nascono, crescono e cadono solo quando sono maturi e possono dare nutrimento. Ecco. Forse dovremmo imparare a fare lo stesso. A essere più fruttiferi. A morire, cadere e rinascere per darci nutrimento. Continuiamo a scrivere, quindi. Scegliamo, decidiamo, cosa vogliamo comunicare all'esterno, nel vero senso di "mettere in comune", di scambiarsi informazioni a livello umano, quelle che vanno al di là di una "crisi commerciale", di una mera interruzione nello "scambio di un prodotto". Ne abbiamo bisogno. In fondo, siamo sempre il prodotto di noi stessi. Non mercifichiamo il coraggio. Facciamole 'ste scelte. Prendiamole 'ste decisioni. Troviamo le soluzioni per governarci (al) meglio. Facciamolo insieme. Ma fallo anche tu, da solo, e vedrai che difficilmente cadrai in fallo.







Credits
Visual: Vanessa Vidale
Content: Treccani.it; Etimo.it

Vuoi aprire un blog? Ecco i primi passi... col girello

Passo indeciso. Sguardo dubbioso. Naso arricciato.
Mano che passa tra i capelli che s'incastrano sui tasti.
Io ti conosco, blogger neonato.
Giri giri in tondo da un po'... ma, cascasse il mondo, hai deciso di creare un blog.
Sai che c'è? Ci proviamo insieme a te.




Un blogger è un genitore nel senso etimologico del termine: "colui che dà la vita".
Ma, a differenza di quello che succede nella vita, muove i primi passi insieme alla creatura: padre e figlio sono il prodotto di una neo-nascita sincronizzata.
Pensiero troppo filosofico?
Solo in parte: quella che riguarda l'amore per il sapere condiviso.

Pensaci un po'. Dico proprio a te, che stai leggendo questo post: perché i tuoi occhi girovaghi si sono incastrati fra queste righe? Cosa ti ha spinto a cercarle? Curiosità, affezione, richiesta d'informazione?

Forse hai deciso ch'è venuto il momento di aprire qualcosa di tuo; qualcosa di viscerale.
Magari hai già provato a spargere parole sul web in passato; e sei rimasto insoddisfatto.
Oppure l'hai fatto prima che il fato senza doppia ti spingesse lontano; e adesso sei tornato.
Io non posso saperlo. Ma sei qui e questo mi dice che vuoi aprire un bel blog: ti piace scrivere, comunicare, esprimere le tue idee. Hai bisogno di farlo, ma non sai da che parte cominciare.
Mal comune (di) mezzo web.

Prendi me: nell'intervento precedente ho parlato di come organizzare l'argomento di un post.
Poi mi è venuto in mente che il problema si pone identico sul blog.
Oh-my-God.
Succede sempre, sappilo: appena scrivi una cosa, ti viene in mente quella seguente.
Lunga catena della mente bighellona, quasi una spirale infernale.
Quindi, no panic baby(blogger): il giramento di testa è cosa normale. La prima "para" da evitare è quella di porsi il problema su cosa scriverai ancor prima d'iniziare. Gli argomenti non mancheranno e ci sono varie tecniche per stilare un piano editoriale.  

Eppure lo so e ti capisco. 
L'affollamento di notizie toglie il respiro, affoga il moto sul nascere, causa scoramento.
Stai muovendo i primi passi intorno al girello e già ti frigge il cervello: 

  • quale piattaforma scegliere? 
  • Come intitolare il blog?
  • E, soprattutto, di cosa parlare?

Guarda, amico blogger: la parola d'ordine è "calma e sangue freddo". E tu sei un girellone fortunato.
Perché queste sono esattamente le domande che sto facendo nella mia community di gente speciale: sono loro i miei Plus; se vuoi, puoi bussare pure tu.


CIE: l'esperimento condiviso

Ho dedicato la nuova sezione del CIE - CopywriterInputEsercizi - al signor blogging.
Il motivo l'ho spiegato in tono scherzoso nelle righe precedenti: decidere di aprire un blog, costruirlo, avere le idee chiare, diffondere i contenuti e trovare la costanza nelle pubblicazioni è problema comune a tutti quelli che già ce l'hanno e che sognano di averne uno. Nessuno escluso.
Ovviamente i problemi vanno "a gradi" e, infatti, siamo partiti dalle basi: scelta della piattaforma e dell'argomento. Il sapere condiviso si alimenta del bagaglio d'esperienza.


Piattaforma: quale scegliere?

Wordpress - la piattaforma "che tira di più", per usare un gergo puerile adatto al baby-blogger.
Nella versione gratuita (wordpress.com) le personalizzazioni sono minime, ma i temi sono carini e fruibili. Non esistono plug-in - disponibili solo per il dominio di primo livello - ma ci sono i cari widget.
Per iniziare a muovere i primi passi non è affatto male: meno scelte grafiche e tecnicismi aiutano a concentrarsi di più sui contenuti. Indubbiamente la cosa più importante da organizzare.

Blogger - la piattaforma targata Google, più fluida per chi si muove senza dominio e SEO friendly "a bestia" (tanto per continuare col tono gergale). Meno professionale della precedente e un po' schifata dal web-writing wor(l)d; ma, forse, la vera differenza sta nel passaggio al famoso dominio.

Ti consiglio di leggere il post di Web-House: aprire un blog: meglio wordpress o blogspot?

Tumblr - piattaforma di non facile impatto, poco pratica e personalizzabile. Quotata "alla grande" per il contenuto grafico/visuale, ma non discorsivo; amata da illustratori, fashion-blogger e... porno amatori. Ha un target giovane, quindi gioca molto sulle "parole grafiche" in stile Copy-Ad. Consigliata per micro-testi, video, immagini. Interessanti anche l'uso di Tumblr come giornale multi-mediale, scrematura di YouTube, punto d'incontro contaminato tra diverse piattaforme e anticamera del testo (teaser di contenuti).

[Credit: Giuseppe Palomba di PaGiuse
Marco Stizioli di Un blog di M]


Argomento: come focalizzarlo?

  • Si parte dall'argomento preciso con approccio emotivo/istintivo.
Capita quando sai già di cosa parlerà il tuo blog; forse perché attinente a un progetto di lavoro o all'obiettivo già chiaro nella mente. L'idea è dentro di te, ma i suoi contorni sono sfumati come batuffoli di cotone profumati: ti manca qualche pezzo del puzzle. Girelli, girelli; guardi intorno, studi, fai ricerche online su possibili idee simili. Non t'affanni: sai che, prima o poi, l'illuminazione arriverà; e così sarà. Allora prenderai un foglio e butterai giù tutto quello ch'è già scritto nella testa.
[Credit: Simona Nurcato di Bagni dal Mondo]


  • Si parte da un'esigenza con approccio curioso/passionale
Capita quando non riesci a fare quello che ti piacerebbe dimostrare.
E allora escogiti la "mossa super-convenienza", ch'è diventata pure un'esigenza.
I canali convenzionali non ti fanno emergere? La frase "sei bravo, ma grazie e arrivederci" s'incunea dentro di te ogni volta che chiudi gli occhi? Bene: quel PC, che vedi lì, è una finestra verso nuovi orizzonti. E decidi d'aprirlo proprio così: sopracciglio alzato, faccia tra l'incredulo e lo scocciato. Però, infondo, sei curioso: vuoi capire qual è il tuo posto nel mondo. Lui sopra di te o tu nell'eterno girello? Magari sei un po' timido, ma vuoi dimostrare d'essere vivo e di saperci fare; qualche sacrificio l'hai pur buttato, perbacco. I tuoi argomenti muoveranno da passione, emersione e voglia di redenzione. Scegli quello che ti piace o che ti piacerebbe fare. La voglia d'arrivare guida sempre il tono "magistrale".
[Credit: Giuseppe Palomba]


  • Si parte dalla vita pratica con approccio razionale
Capita quando hai troppe cose da dire e sei tanto in confusione; ma, essendo un tipo razionale, vincerai la tua battaglia al grido di "focalizzare, focalizzare, focalizzare". Per cercare l'argomento trovi te stesso e t'inabissi nella penombra dell'autocritica: su cosa sei più competente?
Quando riemergi, metti in fila le tue passioni e cerchi quanti blog esistono che toccano gli stessi argomenti.
Sono tanti? Anzi tantissimi? Vai così ch'è una figata? Non c'è problema: decidi di "specializzarti" su quelli, tra i tuoi interessi, che sono anche l'oggetto di uno studio passato e continuo. Chissà, magari la teoria è più interessante se applicata alla vita reale.
[Credit: Roberto Savino di RSXblog]


  • Si parte da uno stimolo esterno con approccio riflessivo
Capita. Succede quando l'idea d'aprire un blog arriva dall'esterno. Tu, ovvio, eri già propenso; ma ti mancava quella spinta leggera come un alito di vento. Poi, si sa, non hai tempo: quel tuo amico, invece, un blog ce l'ha già. Chiacchieri con lui che ti spiega un po' di cose. In un sol giorno assaggi più nozioni di una frittura mista cerebrale. Quindi apri il tuo spazio per condividere scampoli di vita riflessiva.
[Credit: Paolo Campi di Operations]


E tu?

Già, e tu che ci hai seguito fino a qua... che pensi?
Chissà.
Queste sono esperienze di chi ha voluto dire la sua.
Chissà se ti ritrovi un minimo in questi ragionamenti.
Magari la pensi diversamente; Oppure hai già trovato il filo che tutto unisce: quel bisogno di comunicare,
che sai quando inizia, ma non quando finisce.

Scrivere un post, ovvero come organizzare l'argomento

"Che confusione-e-e, sarà perché scriviamo...
... è un'emozione-e-e che cresce piano piano"
Sei un blogger cinguettino ricco d'idee, ma povero di spirito organizzativo? 
Quando scrivi ti fai trascinare dall'emozione centrifuga e perdi il baricentro?


Ho deciso di scrivere un post sul modo giusto d'organizzare un post.
Serve a te, che hai deciso di aprire un blog e vuoi riempire il foglio bianco con una e mille note.
Serve a me, che questo blog l'ho aperto un paio d'anni fa e sento l'esigenza di richiamare alla memoria alcune regole medicinali.

Citano spesso il "blocco dello scrittore", strana ansia da prestazione che protegge l'albo dalle vene screziate delle parole. E c'è chi scorge l'origine del problema nella povertà d'idee nuove.
Io dico ch'esiste anche una ragione opposta: la ricchezza che ogni argomento porta con sé.
Troppe cose da dire in poche righe; troppe cose da leggere in poco tempo.
Il contenuto è vasto e tu sei ricco come lui; ma lo spazio fisico e temporale del lettore è parco.
Non puoi snocciolare perle come se non ci fosse un limite di lettere.
Ricordi? Hai deciso di aprire un blog, non di fare il romanziere.
Bada bene, non è una ramanzina: il binomio è micidiale più d'una carestia in piena età dell'oro. Lo so.

Dunque, come risolvere il dilemma epocale?
C'è la tecnica organizzativa.
C'è la coerenza dell'argomento.
E c'è una scelta che le precede entrambe: il taglio del post, che nulla c'entra con le questioni di stile.


Questione di prospettiva

Spippolando un po' in qua e in là, noterai mille blogs che consigliano ciò: il buon post soddisfa la richiesta del lettore in modo rapido, efficace e puntuale.
Vero. L'internauta ha un caratterino esigente e poco paziente: si rivolge al motore per cercare risposte e vuole capire se il tuo post le contiene fin dalle prime righe.
Per essere all'altezza, cancella il tema della maestra e lanciati nell'acrobazia della piramide rovesciata: parti dalle conclusioni per scivolare nei dettagli.
Detta in modo spicciolo:

  • bandisci la premessa
  • anticipa il contenuto
  • trascina il lettore nel testo con domande curiose
  • aggiungi le informazioni coerenti
  • spingi alla risposta/condivisione/interazione

Non è poi così difficile: basta vestire i panni del lettore.
Quante volte hai digitato parole sul motore per trovare risposte precise?
E quanto fastidio hai provato nel trovarle dopo 101 righe?
E, ancora, quanto sei stato "gabbato" quando il contenuto non rispecchiava le promesse di titolo e premesse?


Questione di coerenza

Buon blogger non mente.
E scrivere è una passione sanguinea, che richiede onestà.
Perché, diciamolo, fregare il motore con i tags non è poi così difficile.
Con buona pace del SEO addicted.
Il problema è che, insieme al motore, finisci per fregare anche il lettore. Un giochino che dura pochino, soprattutto se il blog tratta argomenti di nicchia. Prima o poi quella nicchia t'inchioda al muro dei (non) ricercati e liquida il tuo parere come oro clonato.
Dunque, prima regola fondamentale è la coerenza: quando prometti ricchezza d'argomenti, non offrire povertà d'intenti. Urta. Infastidisce. Allontana. Bandisce. 
Toccherà girare sul web con una maschera calata sulla faccia; e così la storia finisce: novello Spiderman, che s'arrampica sulla rete senza godere alcuna fama d'eroe.
L'obiettivo "coerenza" non è facile: ognuno ha il suo modo di trattare l'argomento complesso.


Questione di taglio

Partiamo da un presupposto: il blogger tosto è un tipetto "spigoloso".
Ha il cervello in continuo fermento, trova spunti in ogni angolo e sa esprimere il suo punto di vista.
Aggiungiamone un altro: trattare un argomento in modo esaustivo nello spazio di un sol post - per quanto illuminante (?) - non è possibile. Il paradosso è insito nelle due premesse: la prima spinge verso la scrittura soggettiva; la seconda verso quella oggettiva.
Questioni di stile?
Forse; ma se posso dissentire, dissento alla grande.

Il copywriter, ad esempio, non deve avere uno stile personale troppo marcato: lo impone il brief, il tipo di prodotto/supporto, il visual, la linea delle campagne precedenti, il target, il messaggio finale.
Diciamo ch'è un tipo duttile: meno parte con un modus operandi preconfezionato, più dimostra elasticità e competenza. Preferisco parlare di "tono personale": il copy-compito è dar voce all'esigenza del cliente nel migliore dei (suoi) modi.
Diverso è il caso del web-writer che voglia emergere dal mare della rete: il blog diventa un curriculum a cielo aperto, lo "stileggiare" una filosofia di vita, i followers sostenitori barra estimatori. Ma anche in questo caso andrei cauta nel parlare di vero e proprio "stile", qualcosa che si conquista nel tempo e che riguarda l'ambito letterario più che la scrittura commerciale. 
E non dimentichiamo il fatto che l'assioma "fidelizzare = follower/fan" riguarda l'adesione al social network, non il lettore occasionale in cerca d'informazioni sul motore. E a te potrebbe interessare anche quello.
Dunque è sempre bene puntare sulla regola elementare: informazioni coerenti.

Per questo, più che di "stile", parlerei di "taglio".
E qui potrei chiamare in causa il mio parrucchiere.
Ma preferisco rivolgermi all'ambito giornalistico, dove l’articolo si definisce “pezzo”.
Mi piace questo termine, perché sa molto di "cesura" e inquadra bene il metodo d'approccio equilibrato alla complessità dell'argomento: una delle matasse bloggettare più difficile da sbrogliare.


Questione di suffisso

Prima di scrivere, ti frega il suffisso -one: emozione, confusione, prestazione.
Ma non devi certo sentirti un co[beep]one number one.
Hai troppe cose da dire sullo stesso argomento: si chiama "affollamento".
Ti muovi nel labirinto del tuo cervello, come un Teseo rapito dallo sgomento.
Ed è proprio sul -mento che finisci per cadere, oppresso dal furore del torello.

Come uscire dall'epico falli...mento?
Per organizzare bene un post, pensa il contenuto sotto-forma di torta: ogni fetta corrisponde al singolo pezzo che vuoi scrivere. E ogni fetta ha il suo taglio preciso. 
Non puoi pappare tutto, rischieresti un'indigestione; stessa cosa vale per post e lettore.
Il segreto è dividere l'argomento principale in tanti pezzi quanti sono gli ambiti.



















Nell'esempio hai deciso di scrivere un post sul web-writing.
Ecco il modo giusto per organizzarti:

  • dividi l'argomento in più ambiti [SEO, blogging, website, advertising, social network]
  • scegli l'ambito che vuoi trattare [in percentuale]
  • sviluppa l'ambito scelto in più categorie [sono i temi generali]
  • costruisci una mappa mentale coerente [sul tema principale che hai scelto]
  • focalizza il nucleo del messaggio [heart-content]
  • organizza il contenuto secondo la tecnica della piramide rovesciata 
  • aggiungi il taglio personale [tono: ironico, oggettivo, soggettivo, informativo, emozionale] 
  • esprimi il tuo punto di vista
  • chiedi al lettore cosa ne pensa

Domanda che sorge spontanea: a furia d'impoverire il piatto ricco, alla fine che ci ficco?
Risposta sincera: il rischio di carestia c'è.
La rincorsa alla brevità può sfociare in aridità: post agili e ben organizzati, ma superficiali.
Vero è che "cesura" e "censura" hanno una lettera che salva le differenze.
God bless consonant "N".
Focalizzare l'argomento e dare un taglio personale non significa rinunciare all'approfondimento: per quello esistono i link, seminati dentro e fuori dal testo. A loro puoi affidare tutto ciò che esula dall'ambito principale, ma che arricchisce il contenuto; come ho fatto io con la mappa mentale.


Concludendo

Ci portiamo a casa poche certezze, ma - spero - buone:

  • prima di scrivere la confusione regna sovrana, con emozione e prestazione in reggenza
  • organizzare un post significa tagliare l'argomento, cucire il testo, indossare il tono
  • l'a(m)bito scelto dev'essere fatto su misura per tre: tu, lettore, motore

Anche il consiglio del buon allenatore si riassume in tre parole: "focalizzare, focalizzare, focalizzare".
Non perché siamo foche, certo; e senza prender fuoco, ché d'ansie ne bastan poche.