"Cosa vuoi, sono tempi di crisi..."
Quante volte abbiamo sentito dire questa frase? E quante volte l'abbiamo sentita intonare con quei tre punti di sospensione finale, quasi che l'unica soluzione alla suddetta "crisi" fosse una sorta di rassegnazione esistenziale? Ecco, io la penso in modo diverso. Penso che basterebbe tornare alla radice della parola per capire quanto il rassegnarsi in tempi di "crisi" sia l'ultima cosa da fare. Forse, dopo aver letto questo post, tu la penserai un po' come me. O forse no...
In tempi di crisi non si crea (o, almeno, diventa più difficile farlo).
Il fatto è che la "crisi", di solito, ci agita parecchio, il che ci rende paradossalmente statici. In crisi siamo (at)tirati da cariche opposte, bipolari, che si annullano a vicenda. Oscilliamo tra momenti "wow" e "down", sopraffatti dall'indecisione, dal timore di compiere un passo falso, finché il tempo non prende il sopravvento, il vento non tira contrario e quei momenti finiscono per diventare tutti uguali - cioè tutti, indistintamente, "critici".
A uno scrittore in crisi succede spesso di "andare in blocco" - nel senso di diventare tutt'uno col suo blocco bianco che più bianco non si può (ché tra ipse dixit e Dixan è un attimo, si sa). L'emisfero destro del cervello, quello più creativo, si rifiuta di collaborare col suo gemello sinistro, quello più analitico, e l'autocritica "costruttiva" diventa solo "distruttiva".
Un vero e proprio gioco al massacro sì, ma solo con se stessi.
"Nulla si crea e nulla si distrugge. Tutto si trasforma", diceva Lavoisier. Okay, la fisica qui non c'entra niente, ma va da sé che per "distruggere qualcosa" prima è necessario "crearlo" e che, se nulla si "crea" e nulla si "distrugge", non ci si può neanche "trasformare". Il che sarebbe grave.
"Staticità di crisi", la potremmo chiamare; oppure, con un'espressione ancora più brutta che sa di economia glaciale, "staticità critica".
A me che scrivo succede spesso di piombare in questa crisi creativa, in questa sorta di blocco comunicativo in cui divento critica verso me stessa al limite del distruttivo. E mi succede ancora di più quando decido di rompere un equilibrio prestabilito per mettermi in gioco.
Crisi.
Critico.
Due parole che tornano di continuo e che sembrano collaborare meglio degli emisferi del mio cervello - anzi, potremmo dire che una collaborazione esclude l'altra.
Ci stavo riflettendo giusto ieri, mentre ticchettavo la penna sulla pagina bianca e assorbivo l'ennesima frase televisiva sulla crisi del nostro Paese: "Siamo in un momento di crisi. Un momento in cui bisogna fare delle scelte coraggiose e prendere delle decisioni nette che annullino le interferenze".
E io pensavo: "Ecco sì, bravi... fatelo! Fatele 'ste scelte! Prendetele 'ste decisioni! Trovate le soluzioni per uscire da 'sta crisi una volta per tutte!" Il coro da stadio lo urlavo tra me e me, ovviamente, dato che, chiamami pure "illusa", nutro ancora fiducia in questo Paese e penso che sia proprio nei momenti di crisi che la politica - o quel che di buono ne resta, almeno - debba svolgere il suo ruolo di "punto di riferimento", dando ai cittadini risposte che stanno proprio nelle scelte coraggiose e nelle decisioni nette di cui sentivo parlare in tivvù.
Scelte.
Decisioni.
Altre due parole che tornano insieme, di continuo, e che sembrano collaborare alla grande con quelle di "crisi" e di "critico". Ci hai mai fatto caso? Io no, mai. Non prima di ieri quando, sull'onda delle notizie televisive, sono tornata a fissare la pagina bianca, rendendomi conto di quanto questi termini fossero connessi. Crisi, critico, scelta, decisione: una sorta di "trenino semantico". Ultimamente, poi, concentrandomi sulla mia "crisi personale" - che certo sarà dipesa da quella globale, ma solo in parte - ho pensato che, in fin dei conti, se la "crisi" è mia, solo io posso uscirne. Solo io posso "governare" la barca della mia vita in modo tale da tenere la rotta fissa sul percorso da intraprendere e posso farlo solo facendo delle scelte coraggiose e prendendo delle decisioni nette. Insomma, si torna sempre lì, al "trenino semantico". Finally, sperando di sbloccarmi, ho chiuso il blocco per aprire il vocabolario etimologico.
Etimo.logico
Cosa significa "crisi"? Qual è l'etimologica di questa parola che ci suona tanto antipatica? Partendo da queste domande base, sono scesa nelle spirali della lingua per scoprire che il significato di "crisi" è meno "infernale" di quanto avremmo potuto immaginare. La parola, infatti, deriva dal verbo greco krino (distinguere, giudicare, scegliere, decidere) e dal corrispondente sostantivo krìsis (scelta, decisione). Ecco, dunque, svelato il mistero del "trenino semantico": è la radice stessa della parola, quella da cui nasce, cresce e si espande, a comprendere le altre. D'altronde quand'è che siamo spinti a fare delle scelte coraggiose? Quand'è che siamo costretti a prendere delle decisioni nette? Nei periodi di "crisi", di "passaggio", in cui diventa necessario fare un cambiamento (spesso) forzato.
Uscire dalla zona di comfort
Diciamolo chiaro: l'essere umano, per sua stessa natura, sarebbe poco portato verso il cambiamento, soprattutto quando quel cambiamento comporta la rottura di un equilibrio prestabilito. Siamo esseri stanziali, che amano e cercano la stabilità, appunto (fisica, finanziaria o emotiva che sia). Non c'è nulla di male in questo; anzi, è la stessa società in cui viviamo a reggersi sui pilastri della stabilità. Lo stipendio. Il mutuo. Il matrimonio. La famiglia. Tutti, prima o poi, siamo spinti a cercare dei punti fissi, dato che quasi tutti - poiché, ahimè, per molti non è stato così - siamo cresciuti in una casa, in una famiglia, da genitori che hanno lavorato per soddisfare i nostri bisogni. Ovvio, quindi, che ci sentiamo più sicuri a replicare un "modello sociale" preSTABILIto. Ripeto: non c'è niente di male in questo. Il male sta nel voler perpetrare quel modello a tutti i costi, anche quando ci rendiamo conto che non va più bene per noi e che la vita ci sta mettendo di fronte al fatto che sarebbe arrivato il momento di apportare un cambiamento.
I momenti in cui capiamo che "qualcosa non va" sono i "momenti critici" di cui parlavamo all'inizio. Quelli che nella realtà potrebbero corrispondere a periodi lunghissimi, in cui siamo così sopraffatti da stimoli opposti che finiamo per rimanere immobili, fatalmente indecisi di fronte a scelte e decisioni che lo stesso concetto di "crisi" si porta dietro. Meccanismo, questo di opposizione al cambiamento, ch'è spesso difensivo e che dovremmo cercare di evitare. Alla lunga, l'immobilità può diventare normalità con conseguenze disastrose sulla nostra personalità. Insomma, sta a noi scegliere, decidere appunto, quale storia desideriamo vivere e come vogliamo viverla, se da eroi epici oppure tragici.
Avere spirito di adattamento
L'avrai capito: nei momenti di crisi "finché la barca va, lasciala andare" anche no. Sono momenti in cui dobbiamo reagire, invece. Valutare. Scegliere. Decidere. Prendere in mano le redini - i remi - della nostra vita, assumerci i rischi per non rischiare d'affondare e per affrontare il cambiamento con portamento fiero. In "crisi", l'imperativo è: mai arrendersi. Mai tirare i remi in barca.
Certo è più facile a dirsi che a farsi. Il modello di vita a cui siamo abituati non sarà il massimo forse, ma - proprio perché trattasi di un modello consolidato - ha il vantaggio di farci sentire sicuri. Di salti nel buio, al contrario, ne sappiamo poco e, quindi, non ci piacciono affatto. Inutile negarlo.
Tuttavia, ricordi cosa abbiamo detto a proposito della legge di Lavoisier? Per "distruggere" bisogna prima "creare" e se non si "crea" e non si "distrugge" nulla non ci si può nemmeno "trasformare". Il che sarebbe grave. Ecco che adesso abbiamo dato un senso a quel "grave". Perché se è vero che l'essere umano è più portato verso la stabilità che verso il cambiamento, è altrettanto vero che il cambiamento, per l'essere umano, così come per ogni essere vivente, è vitale. In natura non esiste nulla che stia fermo. La vita, per sua stessa definizione, muta di continuo. E se non siamo in grado di mutare, di rinnovarci, di stare al passo, allora non ci resta che morire. Sopravvive solo chi è in grado di adattarsi, altrimenti qualcosa rischia d'incrinarsi - mi è venuta in mente, a questo proposito, la metamorfosi della crisalide, che muta per rinascere a nuova vita (anche se, così come per "incrinarsi", la sua etimologia non ha niente a che fare con quella di "crisi").
A questo mondo, dicevamo, sopravvive solo chi ha "spirito d'adattamento" e - finalmente una notizia buona in un mare di "mai una gioia" - possiamo affermare che la maggior parte degli esseri umani ne sono dotati. Anzi, ci riesce meglio adattarci a un cambiamento avvenuto che decidere di farlo noi, di nostra iniziativa, quel cambiamento. E questo accade proprio perché, di base, siamo esseri stanziali. Ma, a differenza delle piante e della maggior parte degli animali, noi possiamo permetterci di andare in crisi, di metterci in discussione, di prenderci del tempo per riflettere su quello che non va così da poter scegliere, decidere, il modo migliore per cambiare le cose. La "crisi", insomma, ci dà l'occasione di mettere la vita in stand by, di disinnescare il pilota automatico con cui conduciamo il flusso frenetico del nostro quotidiano, di tornare alla guida, di rivoluzionarne la mappa, di cambiare una rotta sbagliata. I "momenti di crisi" ci costringono a farlo. Esigono di trovare delle soluzioni per uscire dallo stato d'immobilità, di prendere l'iniziativa, di fare quel passo che sappiamo necessario ma che, in fondo, temiamo.
D'altronde, se siamo andati in crisi ci saranno dei motivi, no? Certo, i motivi possono essere tanto interni e dipendere da noi, quanto esterni e dipendere da fattori che vanno al di là del nostro controllo. Ma è proprio quando ci sfugge tutto di mano che possiamo, e dobbiamo, riprenderlo di nuovo in mano quel tutto. Okay, forse non saremo tipi da gesti eroici, ma la vita è pur sempre la nostra e sta a noi scriverne la storia; sta a noi decidere se ignorare i segnali critici per evitare il cambiamento o se scavare fino in fondo per dare una svolta positiva alla nostra vita.
Controllare ciò che si può
È proprio significato del greco krìno a suggerirci come dovremmo ragionare nei momenti di "crisi":
distinguere ciò che possiamo fare perché dipende da noi, da ciò che non possiamo fare perché non dipende da noi
giudicare, possibilmente senza farci influenzare dalle critiche o dall'eccessiva autocritica, ciò che va bene o che va male
infine, quando - grazie a queste azioni di adattamento abbiamo un quadro più completo della situazione e siamo, quindi, in grado di valutarla meglio
scegliere, decidere quali passi fare per uscire dallo stato d'immobilità critica generale
Se i motivi della "crisi" sono interni c'è sempre qualcosa che possiamo controllare, su cui possiamo concentrarci per fare la differenza. Se sono esterni, invece, dobbiamo concentrarci sui "parametri controllabili", perché sarebbe tempo sprecato dannarsi per ciò ch'è al di fuori del nostro controllo. Un concetto, questo, che nei momenti di "crisi" capiamo perfettamente. Quasi che le difficoltà acuissero l'intelletto, riusciamo a distinguere in modo netto ciò che possiamo o non possiamo fare; ciò che non ci va (fa) bene dal contrario; riusciamo a giudicare lucidamente un'azione positiva da quella negativa. E più riusciamo a farlo in fretta, meno sosteremo in quello "stato di crisi" che potrebbe diventare controproducente.
Aggiungere l'ultimo tassello
A questo punto avrai notato che l'etimologia della parola "crisi" non parla affatto di "cambiamento", limitandosi al "trenino semantico" di "giudizio", "distinzione", "scelta" e "decisione". Potremmo dire, allora, che il "cambiamento" è una diretta conseguenza, o almeno dovrebbe esserlo, dei quattro concetti espressi dal verbo e dal sostantivo greco. Ma è solo con la definizione della parola "crisi" che arriviamo a completare il nostro puzzle:
Boom! Ecco che, nella definizione della parola, troviamo finalmente il cambiamento - il "passaggio repentino da uno stato all'altro" - l'ultimo tassello di quello che appare come un vero e proprio "processo" (infatti l'etimologia della parola parla anche di "giudizio").
Il "momento di crisi" sta proprio nell'incertezza che ci provoca quel "passaggio" che, appunto, deve essere "repentino" per non rischiare di trasformarsi in "stallo" e che, allo tesso tempo, risulta essere "critico" perché dobbiamo scegliere, decidere, in fretta se spostarci da una situazione che non va più bene, ma che abbiamo il vantaggio di conoscere, a una che potrebbe andare meglio, ma di cui non è dato conoscere l'esito. La definizione poggia, quindi, sulla radice etimologica e stigmatizza il "cambiamento" come sua conseguenza diretta. Non a caso, "crisi" è una parola che si trova in diversi ambiti: medico e biologico (uscire dallo stato di crisi di una malattia o di un virus); psicologico (crisi di coscienza; adolescenziale; d'identità); sportivo (crisi da classifica); commerciale (crisi economica, intesa come sospensione del commercio, del movimento di scambio).
Quante volte abbiamo sentito dire questa frase? E quante volte l'abbiamo sentita intonare con quei tre punti di sospensione finale, quasi che l'unica soluzione alla suddetta "crisi" fosse una sorta di rassegnazione esistenziale? Ecco, io la penso in modo diverso. Penso che basterebbe tornare alla radice della parola per capire quanto il rassegnarsi in tempi di "crisi" sia l'ultima cosa da fare. Forse, dopo aver letto questo post, tu la penserai un po' come me. O forse no...
In tempi di crisi non si crea (o, almeno, diventa più difficile farlo).
Il fatto è che la "crisi", di solito, ci agita parecchio, il che ci rende paradossalmente statici. In crisi siamo (at)tirati da cariche opposte, bipolari, che si annullano a vicenda. Oscilliamo tra momenti "wow" e "down", sopraffatti dall'indecisione, dal timore di compiere un passo falso, finché il tempo non prende il sopravvento, il vento non tira contrario e quei momenti finiscono per diventare tutti uguali - cioè tutti, indistintamente, "critici".
A uno scrittore in crisi succede spesso di "andare in blocco" - nel senso di diventare tutt'uno col suo blocco bianco che più bianco non si può (ché tra ipse dixit e Dixan è un attimo, si sa). L'emisfero destro del cervello, quello più creativo, si rifiuta di collaborare col suo gemello sinistro, quello più analitico, e l'autocritica "costruttiva" diventa solo "distruttiva".
Un vero e proprio gioco al massacro sì, ma solo con se stessi.
"Nulla si crea e nulla si distrugge. Tutto si trasforma", diceva Lavoisier. Okay, la fisica qui non c'entra niente, ma va da sé che per "distruggere qualcosa" prima è necessario "crearlo" e che, se nulla si "crea" e nulla si "distrugge", non ci si può neanche "trasformare". Il che sarebbe grave.
"Staticità di crisi", la potremmo chiamare; oppure, con un'espressione ancora più brutta che sa di economia glaciale, "staticità critica".
A me che scrivo succede spesso di piombare in questa crisi creativa, in questa sorta di blocco comunicativo in cui divento critica verso me stessa al limite del distruttivo. E mi succede ancora di più quando decido di rompere un equilibrio prestabilito per mettermi in gioco.
Crisi.
Critico.
Due parole che tornano di continuo e che sembrano collaborare meglio degli emisferi del mio cervello - anzi, potremmo dire che una collaborazione esclude l'altra.
Ci stavo riflettendo giusto ieri, mentre ticchettavo la penna sulla pagina bianca e assorbivo l'ennesima frase televisiva sulla crisi del nostro Paese: "Siamo in un momento di crisi. Un momento in cui bisogna fare delle scelte coraggiose e prendere delle decisioni nette che annullino le interferenze".
E io pensavo: "Ecco sì, bravi... fatelo! Fatele 'ste scelte! Prendetele 'ste decisioni! Trovate le soluzioni per uscire da 'sta crisi una volta per tutte!" Il coro da stadio lo urlavo tra me e me, ovviamente, dato che, chiamami pure "illusa", nutro ancora fiducia in questo Paese e penso che sia proprio nei momenti di crisi che la politica - o quel che di buono ne resta, almeno - debba svolgere il suo ruolo di "punto di riferimento", dando ai cittadini risposte che stanno proprio nelle scelte coraggiose e nelle decisioni nette di cui sentivo parlare in tivvù.
Scelte.
Decisioni.
Altre due parole che tornano insieme, di continuo, e che sembrano collaborare alla grande con quelle di "crisi" e di "critico". Ci hai mai fatto caso? Io no, mai. Non prima di ieri quando, sull'onda delle notizie televisive, sono tornata a fissare la pagina bianca, rendendomi conto di quanto questi termini fossero connessi. Crisi, critico, scelta, decisione: una sorta di "trenino semantico". Ultimamente, poi, concentrandomi sulla mia "crisi personale" - che certo sarà dipesa da quella globale, ma solo in parte - ho pensato che, in fin dei conti, se la "crisi" è mia, solo io posso uscirne. Solo io posso "governare" la barca della mia vita in modo tale da tenere la rotta fissa sul percorso da intraprendere e posso farlo solo facendo delle scelte coraggiose e prendendo delle decisioni nette. Insomma, si torna sempre lì, al "trenino semantico". Finally, sperando di sbloccarmi, ho chiuso il blocco per aprire il vocabolario etimologico.
Etimo.logico
Cosa significa "crisi"? Qual è l'etimologica di questa parola che ci suona tanto antipatica? Partendo da queste domande base, sono scesa nelle spirali della lingua per scoprire che il significato di "crisi" è meno "infernale" di quanto avremmo potuto immaginare. La parola, infatti, deriva dal verbo greco krino (distinguere, giudicare, scegliere, decidere) e dal corrispondente sostantivo krìsis (scelta, decisione). Ecco, dunque, svelato il mistero del "trenino semantico": è la radice stessa della parola, quella da cui nasce, cresce e si espande, a comprendere le altre. D'altronde quand'è che siamo spinti a fare delle scelte coraggiose? Quand'è che siamo costretti a prendere delle decisioni nette? Nei periodi di "crisi", di "passaggio", in cui diventa necessario fare un cambiamento (spesso) forzato.
Uscire dalla zona di comfort
Diciamolo chiaro: l'essere umano, per sua stessa natura, sarebbe poco portato verso il cambiamento, soprattutto quando quel cambiamento comporta la rottura di un equilibrio prestabilito. Siamo esseri stanziali, che amano e cercano la stabilità, appunto (fisica, finanziaria o emotiva che sia). Non c'è nulla di male in questo; anzi, è la stessa società in cui viviamo a reggersi sui pilastri della stabilità. Lo stipendio. Il mutuo. Il matrimonio. La famiglia. Tutti, prima o poi, siamo spinti a cercare dei punti fissi, dato che quasi tutti - poiché, ahimè, per molti non è stato così - siamo cresciuti in una casa, in una famiglia, da genitori che hanno lavorato per soddisfare i nostri bisogni. Ovvio, quindi, che ci sentiamo più sicuri a replicare un "modello sociale" preSTABILIto. Ripeto: non c'è niente di male in questo. Il male sta nel voler perpetrare quel modello a tutti i costi, anche quando ci rendiamo conto che non va più bene per noi e che la vita ci sta mettendo di fronte al fatto che sarebbe arrivato il momento di apportare un cambiamento.
I momenti in cui capiamo che "qualcosa non va" sono i "momenti critici" di cui parlavamo all'inizio. Quelli che nella realtà potrebbero corrispondere a periodi lunghissimi, in cui siamo così sopraffatti da stimoli opposti che finiamo per rimanere immobili, fatalmente indecisi di fronte a scelte e decisioni che lo stesso concetto di "crisi" si porta dietro. Meccanismo, questo di opposizione al cambiamento, ch'è spesso difensivo e che dovremmo cercare di evitare. Alla lunga, l'immobilità può diventare normalità con conseguenze disastrose sulla nostra personalità. Insomma, sta a noi scegliere, decidere appunto, quale storia desideriamo vivere e come vogliamo viverla, se da eroi epici oppure tragici.
Avere spirito di adattamento
L'avrai capito: nei momenti di crisi "finché la barca va, lasciala andare" anche no. Sono momenti in cui dobbiamo reagire, invece. Valutare. Scegliere. Decidere. Prendere in mano le redini - i remi - della nostra vita, assumerci i rischi per non rischiare d'affondare e per affrontare il cambiamento con portamento fiero. In "crisi", l'imperativo è: mai arrendersi. Mai tirare i remi in barca.
Certo è più facile a dirsi che a farsi. Il modello di vita a cui siamo abituati non sarà il massimo forse, ma - proprio perché trattasi di un modello consolidato - ha il vantaggio di farci sentire sicuri. Di salti nel buio, al contrario, ne sappiamo poco e, quindi, non ci piacciono affatto. Inutile negarlo.
Tuttavia, ricordi cosa abbiamo detto a proposito della legge di Lavoisier? Per "distruggere" bisogna prima "creare" e se non si "crea" e non si "distrugge" nulla non ci si può nemmeno "trasformare". Il che sarebbe grave. Ecco che adesso abbiamo dato un senso a quel "grave". Perché se è vero che l'essere umano è più portato verso la stabilità che verso il cambiamento, è altrettanto vero che il cambiamento, per l'essere umano, così come per ogni essere vivente, è vitale. In natura non esiste nulla che stia fermo. La vita, per sua stessa definizione, muta di continuo. E se non siamo in grado di mutare, di rinnovarci, di stare al passo, allora non ci resta che morire. Sopravvive solo chi è in grado di adattarsi, altrimenti qualcosa rischia d'incrinarsi - mi è venuta in mente, a questo proposito, la metamorfosi della crisalide, che muta per rinascere a nuova vita (anche se, così come per "incrinarsi", la sua etimologia non ha niente a che fare con quella di "crisi").
A questo mondo, dicevamo, sopravvive solo chi ha "spirito d'adattamento" e - finalmente una notizia buona in un mare di "mai una gioia" - possiamo affermare che la maggior parte degli esseri umani ne sono dotati. Anzi, ci riesce meglio adattarci a un cambiamento avvenuto che decidere di farlo noi, di nostra iniziativa, quel cambiamento. E questo accade proprio perché, di base, siamo esseri stanziali. Ma, a differenza delle piante e della maggior parte degli animali, noi possiamo permetterci di andare in crisi, di metterci in discussione, di prenderci del tempo per riflettere su quello che non va così da poter scegliere, decidere, il modo migliore per cambiare le cose. La "crisi", insomma, ci dà l'occasione di mettere la vita in stand by, di disinnescare il pilota automatico con cui conduciamo il flusso frenetico del nostro quotidiano, di tornare alla guida, di rivoluzionarne la mappa, di cambiare una rotta sbagliata. I "momenti di crisi" ci costringono a farlo. Esigono di trovare delle soluzioni per uscire dallo stato d'immobilità, di prendere l'iniziativa, di fare quel passo che sappiamo necessario ma che, in fondo, temiamo.
D'altronde, se siamo andati in crisi ci saranno dei motivi, no? Certo, i motivi possono essere tanto interni e dipendere da noi, quanto esterni e dipendere da fattori che vanno al di là del nostro controllo. Ma è proprio quando ci sfugge tutto di mano che possiamo, e dobbiamo, riprenderlo di nuovo in mano quel tutto. Okay, forse non saremo tipi da gesti eroici, ma la vita è pur sempre la nostra e sta a noi scriverne la storia; sta a noi decidere se ignorare i segnali critici per evitare il cambiamento o se scavare fino in fondo per dare una svolta positiva alla nostra vita.
Controllare ciò che si può
distinguere ciò che possiamo fare perché dipende da noi, da ciò che non possiamo fare perché non dipende da noi
giudicare, possibilmente senza farci influenzare dalle critiche o dall'eccessiva autocritica, ciò che va bene o che va male
infine, quando - grazie a queste azioni di adattamento abbiamo un quadro più completo della situazione e siamo, quindi, in grado di valutarla meglio
scegliere, decidere quali passi fare per uscire dallo stato d'immobilità critica generale
Se i motivi della "crisi" sono interni c'è sempre qualcosa che possiamo controllare, su cui possiamo concentrarci per fare la differenza. Se sono esterni, invece, dobbiamo concentrarci sui "parametri controllabili", perché sarebbe tempo sprecato dannarsi per ciò ch'è al di fuori del nostro controllo. Un concetto, questo, che nei momenti di "crisi" capiamo perfettamente. Quasi che le difficoltà acuissero l'intelletto, riusciamo a distinguere in modo netto ciò che possiamo o non possiamo fare; ciò che non ci va (fa) bene dal contrario; riusciamo a giudicare lucidamente un'azione positiva da quella negativa. E più riusciamo a farlo in fretta, meno sosteremo in quello "stato di crisi" che potrebbe diventare controproducente.
Aggiungere l'ultimo tassello
A questo punto avrai notato che l'etimologia della parola "crisi" non parla affatto di "cambiamento", limitandosi al "trenino semantico" di "giudizio", "distinzione", "scelta" e "decisione". Potremmo dire, allora, che il "cambiamento" è una diretta conseguenza, o almeno dovrebbe esserlo, dei quattro concetti espressi dal verbo e dal sostantivo greco. Ma è solo con la definizione della parola "crisi" che arriviamo a completare il nostro puzzle:
- "crisi" è il momento che separa una maniera d'essere da un'altra ch'è differente; o, detta in altro modo, è il passaggio repentino da uno stato all'altro.
Boom! Ecco che, nella definizione della parola, troviamo finalmente il cambiamento - il "passaggio repentino da uno stato all'altro" - l'ultimo tassello di quello che appare come un vero e proprio "processo" (infatti l'etimologia della parola parla anche di "giudizio").
Il "momento di crisi" sta proprio nell'incertezza che ci provoca quel "passaggio" che, appunto, deve essere "repentino" per non rischiare di trasformarsi in "stallo" e che, allo tesso tempo, risulta essere "critico" perché dobbiamo scegliere, decidere, in fretta se spostarci da una situazione che non va più bene, ma che abbiamo il vantaggio di conoscere, a una che potrebbe andare meglio, ma di cui non è dato conoscere l'esito. La definizione poggia, quindi, sulla radice etimologica e stigmatizza il "cambiamento" come sua conseguenza diretta. Non a caso, "crisi" è una parola che si trova in diversi ambiti: medico e biologico (uscire dallo stato di crisi di una malattia o di un virus); psicologico (crisi di coscienza; adolescenziale; d'identità); sportivo (crisi da classifica); commerciale (crisi economica, intesa come sospensione del commercio, del movimento di scambio).
Tirare le somme
I "momenti di crisi" sono campanelli d'allarme in cui la vita, per motivi più o meno controllabili, ci sta dicendo che qualcosa non va nel "modello" che ci siamo imposti e che è giunto il momento di cambiarlo. Il più delle volte li consideriamo momenti negativi, in cui ci sentiamo persi per mesi - o addirittura per anni - tra l'indecisione di compiere un passo e la consapevolezza che quel passo, prima o poi, dovremo farlo. La terra ci trema sotto i piedi e noi ci opponiamo strenuamente al terremoto, attaccandoci a qualsiasi cosa abbiamo intorno pur di non dover rinunciare alla nostra "finta" stabilità. Così facendo, però, rischiamo di restare fermi per un lasso di tempo che potrebbe trasformarsi in un buco nero. E questo, se vogliamo sopravvivere, non possiamo proprio permettercelo. Ci vuole spirito d'iniziativa, oltre che di adattamento.
Torniamo, quindi, alla radice della parola "crisi" per capire quanto i "momenti critici" siano quasi fisiologici, portatori d'un cambiamento necessario al rinnovamento della vita. Senza un "processo di crisi" nulla si crea, nulla si distrugge e nulla si trasforma. Nulla "processa", appunto. Non in natura, almeno. Approfittiamo, quindi, dei "momenti di crisi" per mettere freno a una vita dai ritmi frenetici e prendiamoci del tempo per noi stessi, per riflettere, per porci domande profonde, per rinnovarci magari. Far finta di niente non serve. Rispondiamo alla sfida che la vita ci impone. Immergiamoci nel "processo critico". Giudichiamo(ci) senza arrivare a distruggerci. Decidiamo. Scegliamo. Troviamo il punto di svolta per cambiare di slancio un modello di vita abusato.
Finché c'è crisi, c'è speranza
Scrittore in crisi non crea e si distrugge spesso di autocritiche senza riuscire a trasformarsi in meglio, dicevamo. Ma forse la verità è che, attraverso la crisi, lo scrittore si processa naturalmente, dove "processo" è da intendersi più in senso informatico che giuridico. Lo scrittore in crisi non crea per distruggersi, (ri)crearsi e trasformarsi. Ogni tanto, insomma, bisogna resettare un po' di cose e per farlo tocca distruggere ciò che fino a quel momento ha funzionato, ma che ora non funziona più.
Nel concetto di "crisi", in fondo, è sempre insita la speranza di un cambiamento; se in meglio o in peggio, questo non è dato saperlo: l'incognita fa parte del gioco della vita ed è meglio non tirarsi mai indietro di fronte alla sfida. Alla lunga, sarebbe un gioco al massacro con noi stessi. Un fallimento, diciamo. Tanto che, quando sostiamo troppo in un momento di crisi, continuando a perpetrare ciò che non va più bene per noi e rifiutandoci di fare le scelte che ci porterebbero invece a un cambiamento salutare, finiamo per sentirci esattamente così: falliti.
Il fatto è che spesso, prima di poter cambiare, dobbiamo accettare di aver sbagliato, chiedere il conto a noi stessi, farci un vero e proprio "processo", appunto, e questo ci abbatte a tal punto da annullare qualsiasi spirito d'iniziativa, qualsiasi scelte, qualsiasi decisione. Dimentichiamo che dal fallimento possono nascere grandi cose; e che anzi, è proprio attraverso il fallimento, la caduta e la distruzione, che possiamo arrivare e conoscere i nostri limiti, a imparare dai nostri errori e a rialzarci in piedi per aggiustare il tiro e trasformarci in una versione migliore di noi stessi.
Hai presente, no, come fanno le foglie degli alberi che cadono per poi rinascere. O i fiori. O i frutti che nascono, crescono e cadono solo quando sono maturi e possono dare nutrimento. Ecco. Forse dovremmo imparare a fare lo stesso. A essere più fruttiferi. A morire, cadere e rinascere per darci nutrimento. Continuiamo a scrivere, quindi. Scegliamo, decidiamo, cosa vogliamo comunicare all'esterno, nel vero senso di "mettere in comune", di scambiarsi informazioni a livello umano, quelle che vanno al di là di una "crisi commerciale", di una mera interruzione nello "scambio di un prodotto". Ne abbiamo bisogno. In fondo, siamo sempre il prodotto di noi stessi. Non mercifichiamo il coraggio. Facciamole 'ste scelte. Prendiamole 'ste decisioni. Troviamo le soluzioni per governarci (al) meglio. Facciamolo insieme. Ma fallo anche tu, da solo, e vedrai che difficilmente cadrai in fallo.
I "momenti di crisi" sono campanelli d'allarme in cui la vita, per motivi più o meno controllabili, ci sta dicendo che qualcosa non va nel "modello" che ci siamo imposti e che è giunto il momento di cambiarlo. Il più delle volte li consideriamo momenti negativi, in cui ci sentiamo persi per mesi - o addirittura per anni - tra l'indecisione di compiere un passo e la consapevolezza che quel passo, prima o poi, dovremo farlo. La terra ci trema sotto i piedi e noi ci opponiamo strenuamente al terremoto, attaccandoci a qualsiasi cosa abbiamo intorno pur di non dover rinunciare alla nostra "finta" stabilità. Così facendo, però, rischiamo di restare fermi per un lasso di tempo che potrebbe trasformarsi in un buco nero. E questo, se vogliamo sopravvivere, non possiamo proprio permettercelo. Ci vuole spirito d'iniziativa, oltre che di adattamento.
Torniamo, quindi, alla radice della parola "crisi" per capire quanto i "momenti critici" siano quasi fisiologici, portatori d'un cambiamento necessario al rinnovamento della vita. Senza un "processo di crisi" nulla si crea, nulla si distrugge e nulla si trasforma. Nulla "processa", appunto. Non in natura, almeno. Approfittiamo, quindi, dei "momenti di crisi" per mettere freno a una vita dai ritmi frenetici e prendiamoci del tempo per noi stessi, per riflettere, per porci domande profonde, per rinnovarci magari. Far finta di niente non serve. Rispondiamo alla sfida che la vita ci impone. Immergiamoci nel "processo critico". Giudichiamo(ci) senza arrivare a distruggerci. Decidiamo. Scegliamo. Troviamo il punto di svolta per cambiare di slancio un modello di vita abusato.
Finché c'è crisi, c'è speranza
Scrittore in crisi non crea e si distrugge spesso di autocritiche senza riuscire a trasformarsi in meglio, dicevamo. Ma forse la verità è che, attraverso la crisi, lo scrittore si processa naturalmente, dove "processo" è da intendersi più in senso informatico che giuridico. Lo scrittore in crisi non crea per distruggersi, (ri)crearsi e trasformarsi. Ogni tanto, insomma, bisogna resettare un po' di cose e per farlo tocca distruggere ciò che fino a quel momento ha funzionato, ma che ora non funziona più.
Nel concetto di "crisi", in fondo, è sempre insita la speranza di un cambiamento; se in meglio o in peggio, questo non è dato saperlo: l'incognita fa parte del gioco della vita ed è meglio non tirarsi mai indietro di fronte alla sfida. Alla lunga, sarebbe un gioco al massacro con noi stessi. Un fallimento, diciamo. Tanto che, quando sostiamo troppo in un momento di crisi, continuando a perpetrare ciò che non va più bene per noi e rifiutandoci di fare le scelte che ci porterebbero invece a un cambiamento salutare, finiamo per sentirci esattamente così: falliti.
Il fatto è che spesso, prima di poter cambiare, dobbiamo accettare di aver sbagliato, chiedere il conto a noi stessi, farci un vero e proprio "processo", appunto, e questo ci abbatte a tal punto da annullare qualsiasi spirito d'iniziativa, qualsiasi scelte, qualsiasi decisione. Dimentichiamo che dal fallimento possono nascere grandi cose; e che anzi, è proprio attraverso il fallimento, la caduta e la distruzione, che possiamo arrivare e conoscere i nostri limiti, a imparare dai nostri errori e a rialzarci in piedi per aggiustare il tiro e trasformarci in una versione migliore di noi stessi.
Hai presente, no, come fanno le foglie degli alberi che cadono per poi rinascere. O i fiori. O i frutti che nascono, crescono e cadono solo quando sono maturi e possono dare nutrimento. Ecco. Forse dovremmo imparare a fare lo stesso. A essere più fruttiferi. A morire, cadere e rinascere per darci nutrimento. Continuiamo a scrivere, quindi. Scegliamo, decidiamo, cosa vogliamo comunicare all'esterno, nel vero senso di "mettere in comune", di scambiarsi informazioni a livello umano, quelle che vanno al di là di una "crisi commerciale", di una mera interruzione nello "scambio di un prodotto". Ne abbiamo bisogno. In fondo, siamo sempre il prodotto di noi stessi. Non mercifichiamo il coraggio. Facciamole 'ste scelte. Prendiamole 'ste decisioni. Troviamo le soluzioni per governarci (al) meglio. Facciamolo insieme. Ma fallo anche tu, da solo, e vedrai che difficilmente cadrai in fallo.
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