Il "rumore": quando comunicare stressa

L'esperienza quotidiana mette a dura prova la voglia di comunicare.
Non è questione di poca volontà, ma piuttosto di "rumore".
Cosa significa? Sai che si fa, te lo racconto al bar.



Sono cresciuta a pane e parole.
Sono cresciuta balbettando suoni confusi ancor prima d'imparare a camminare.
Fino a una certa età pensavo fosse una cosa eccezionale. E in parte, forse, lo è.

Poi ho scoperto che, dieci anni prima della mia nascita, tre individui dai nomi impronunciabili - Paul Watzlavick, Janet B. Bavelas, Don D. Jackson - hanno pubblicato il manuale "Pragmatics of Human Communication", pietra miliare della psicologia mondiale che mette la comunicazione al centro del processo relazionale.
Si parte dal presupposto che in presenza di altri individui "non si possa fare a meno di comunicare". L'affermazione con doppia negazione stressa, ma tu leggi lo stesso che intanto ti passa:


"Il comportamento non ha un opposto. In altre parole non esiste il non-comportamento o, per dirla più semplicemente, non è possibile non avere un comportamento. Ora se si accetta che l'intero comportamento in una situazione d'interazione ha valore di comunicazione, ne consegue che comunque ci si sforzi non si può non comunicare. L'attività o l'inattività, le parole o il silenzio hanno tutti valore di messaggio: influenzano gli altri e gli altri, a loro volta, non possono che rispondere a questi stimoli". 


Qui scatta il famoso detto "il silenzio vale più di mille parole": afonia, gesto, cenno si riempiono di significato. Tutto parla: sempre. La comunicazione è l'attività che occupa più tempo nella vita umana, dopo la respirazione. Quest'è: bisogna farsene una ragione.

Pepepepepeeee pepepepepeeeeee pepepepepe pe pe.

Contento eh...
Be', io non farei salti di gioia: esiste una cosa che mette a dura prova il naturale fluire della parola.
Si chiama "rumore" e no, non è il rumors anglossassone - anche se, lo ammetto, può essere più fastidioso d'un pettegolezzo. Se ti va di sapere cos'è, te lo spiego al bar davanti al caffè.


Metti un giorno al bar...

Da quando costa due euro, la colazione al bar non è cosa per me; ma, sai com'è, ci sono giorni in cui ti vuoi coccolare con la schiumetta mondiale sul caffè e - magari - instagrammare questo momento bestiale (nel senso di the best). Sì, perché - ormai è ufficiale - sul web il cappuccino fa concorrenza al gattino.

Oggi è uno di quei giorni.
A giudicare dalla massa di motori parcheggiati fuori, il primo pensiero è un (pro)verbale "rinunciare": la mattina non ho granché voglia di parlare; ma ho fame, quindi entro e affronto con pazienza l'ammasso infernale. Voglio schematizzare la situazione in termini di pura comunicazione:


  • emittente: io
  • messaggio: vorrei un caffèèèèèèè, grazie
  • canale: l'aria
  • destinatario: barista super-affannato
  • codici in successione: lingua italiana, dialetto veneto, mano in aria, cenno con la testa, urlo 
  • contesto: tripla fila, a due passi dalla porta, seconda posizione a destra
  • feedback: non pervenuto in termini di reazione, risposta, retro-azione.


Su tutto aleggia un rumore assordante che impedisce la ricezione del messaggio e, diciamolo, infastidisce l'emittente: bocche aperte, mascelle serrate, sbuffi alitanti, voci squillanti.
Il ponte è interrotto. Il flusso disturbato. Il feedback azzerato.



Fatto l'esempio, direi che quest'è la definizione di "rumore" in comunicazione: qualsiasi cosa disturbi il canale, interrompendo la ricezione del messaggio e, quindi, la reazione del ricevente.
Lo scambio va a buon fine quando il rumore è azzerato: chi abbiamo di fronte capisce in modo chiaro quello che diciamo, reagisce di conseguenza e dà seguito al processo comunicativo.
Il "rumore" è un'esperienza quotidiana che tutti facciamo:


  • musica troppo alta 
  • suono dell'ambulanza
  • petardi e fuochi d'artificio 
  • discussione con gara a chi urla di più
  • interruzione della linea sul telefonino 
  • crollo della connessione sul PC 
  • uso di mezzi diversi per comunicare (anche in digitale)
  • flusso d'informazioni difficile da catalogare (soprattutto in digitale)
  • discoteca con esasperato BUM, BUM, BUM
  • traffico con esagerato BRUM, BRUM, BRUM


Si tratta dell'unico momento in cui la volontà di comunicare non basta: alle volte è casuale, altre servirebbe una buona dose di educazione. Vero è ch'esiste anche il contrario: hai presente quando c'è gente che ti parla piano, piano, piano... e a te tocca tendere l'unico orecchio sano per capire quello che dice? Be', ti sembrerà strano, ma pure quello si chiama "rumore": qualsiasi cosa interrompa il canale, impedendo la ricezione del messaggio, e che possa variare in base al canale stesso.
Qui potrebbe scattare il secondo detto/ossimoro: "Anche il silenzio può essere assordante".

Chiudo il post lanciando una provocazione (1), facendo una constatazione (2), tirando una conclusione (3) e concedendomi una (semi)citazione (4):

  1. in caso di comunicazione analogica (gestuale) come si potrebbe definire il "rumore"?
  2. fatto sta che non c'è cosa più fastidiosa di questa interruzione un po' qua e un po' là
  3. ricordiamocelo bene quando scriviamo, gesticoliamo e scambiamo un'opinione
  4. magari con quattro amici; al bar.

#Facebook e il redi(vi)vo annuncio stampa

Ciao, sono un copywriter: posso scrivere "su tutto"?
Quesito che solleva un polverone di competenze, come quello sul web-writer e la (giusta) differenziazione. Il panorama "scrittura" oggi è cambiato; e l'avvento dei social network non fa che aumentare la confusione.


Sarebbe carino addentarsi nell'annosa questione "copywriter o web writer?".
Ma non lo farò: l'ho già fatto in questo post.
Dirò solo che quel "su tutto" non è da intendersi come sostanza, ma come supporto: carta o schermo? Indubbiamente l'avvento del mezzo digitale ha cambiato il mondo della scrittura e sconvolto le sue regole. C'è da dire, però, che il coinvolgimento - o engagement - esiste da sempre: manifesto, spot, brochure, script; tutte cosette che hanno un fine: comunicare il prodotto nel modo più adatto al target group.

Quel pubblico oggi non è cambiato: semplicemente bazzica "luoghi" diversi, con regole nuove e linguaggi specifici. Tant'è che alcune basi di copywriting tradizionale restano valide anche sul mezzo digitale: social network in primis.
Non ci credi? Tocca leggere un po' qui.


Il post perfetto, Facebook e lo sgambetto

Diciamolo chiaro: tutti scriviamo di tutto, con tutto, su tutto.
La cosa è positiva, ma poco impegnativa: troppi scribacchini armati di puro spirito condiviso.
Ieri si comunicava attraverso radio, giornali, TV.
Oggi non serve più: un po' tocca adeguarsi per lavorare; un po' ci si fa trascinare dalla foga di partecipare; un altro terzo si coltiva il sogno nel cassetto dello scrittore provetto per riuscire a pubblicare.
Fatto sta che siti, blogs e social network spingono le dita sui tasti con vario effetto.

Leggo - e rileggo - articoli dal titolo "come si scrive un post su Facebook?".
Insisto a dire che non è la Treccani, anche se ci sono delle regole da seguire:

  • brevità, ma dipende sempre da cosa scrivi e da come lo fai: una mini-storia, per esempio, piace sempre e suona come condivisione d'esperienze
  • chiarezza di linguaggio, ma - soprattutto - d'intento
  • utilità e/o divertimento
  • quotidianità, sorpresa, sbalordimento/curiosità
  • ironia, gioco, allusione
  • quesiti da risolvere insieme (domande)
  • consigli, esperienze, risorse da condividere
  • link di approfondimento, possibilmente non accorciati con strumenti come bitly: i lettori di Facebook vogliono sapere dove li stai portando e non amano perdere tempo

Il fine è il famoso coinvolgimento per ottenere una condivisione, un like, un commento.
Forse non lo sai, ma i post di Facebook hanno una vita di circa tre ore secondo la "partecipazione" del lettore. Il caro Mark, poi, ha cambiato di nuovo l'algoritmo - edgerank - e la visibilità nel flusso d'informazioni è ridotta al minimo: c'è da mettere mano alla - già magra - scarsella.
Tuttavia esistono ottimi escamotages per ovviare: Veronica Gentili ne parla sul suo prezioso blog. 
Dulcis in fundo ci sono le immagini; e qui vedo la "connessione" con il copywriting tradizionale.


Immagini + parole = coerenza, gioco, compensazione

Una cosa è gestire una fan-page a livello di marketing, altra è saperla scrivere: la scelta immagine + testo, per esempio, è difficile:

  • la prima ha un'importanza focale per la visibilità del post: impattante, emozionante, clamorosa o bestiale (gattino?) si fa sempre notare 
  • il secondo è fondamentale per capire di cosa stiamo parlando e, magari, spiegare quello che stiamo guardando. 

Non è un caso che sia tornato in auge il copy-ad: parole con font azzeccati e frasi memorabili che troneggiano nello spazio... "visivo".

Domanda che sorge spontanea: il testo accompagna l'immagine o viceversO?
Un tempo non troppo lontano esisteva l'agenzia pubblicitaria, dove ognuno aveva un compito preciso: il copy scriveva, l'art "vedeva". Insieme formavano la mitica "coppia creativa" chiusa in un lavoro di confronto e compensazione continua.
Oggi le competenze richieste sono le stesse, ma una persona si trova a fare tante cose diverse.
E succede che rispolverare le buone vecchie regole dell'annuncio stampa torni utile come un martello per fissare il chiodo. Si potrebbero citare a proposito pubblicitari famosi come Annamaria Testa per cui:

"il messaggio è polisenso e le due letture incrociate d'immagine e testo acquistano spessore rimandandosi una all'altra"

O menti geniali come quella di Benedetto Croce, per cui:

"nell'arte contenuto e forma sono entità inseparabili".

La lezione di fondo è che immagine e testo non hanno vita autonoma, ma vivono per compensarsi: ognuno influisce sul senso dell'altro in un gioco di rimandi, emozioni, contraddizioni, informazioni. L'importante è non cadere nella ripetizione e saper ampliare il tono del messaggio finale: funziona anche su Facebook, se pur in modo parziale.


Annuncio stampa: componenti


Ovvio: è impossibile replicare tutte le componenti di un annuncio stampa tradizionale nello spazio del social-post: ci sarebbero titolo, sottotitolo, visual, bodycopy, logotipo/pack-shot, baseline, payoff.
Ma possiamo pur sempre:

  • giocare con testo e immagine per integrare i loro significati e definire il tono di "voce": ironico, malinconico, cinico, riflessivo 
  • costruire un intervento su tre o quattro parti dell'annuncio stampa: titolo, sottotitolo, bodyvisual.

Commentare l'immagine del nostro post significa dare un taglio preciso; ma spesso non basta, com'è vero anche il contrario: l'ambiguità del testo può trovare "sfogo" nella parte visiva.
Vale la pena sperimentare e giocarci un po' su: è un ottimo esercizio da non farsi scappare.

Ecco un esempio tratto da Copywriter-Input, dove ho cercato di replicare:

  • titolo in carattere maiuscolo sottoforma di... domanda 
  • sottotitolo che esplicita la domanda con punto interrogativo [inciso: FB voglio il corsivo] 
  • commento lungo e riflessivo [simil-bodycopy]
  • copy-ad (redivivo) al posto del classico visual




Allora?
Come ti sembra questo esperimento?
Hai mai pensato di rinfrescare le vecchie regole del copywriting tradizionale?
Visual:
dedonno.net
scudi.net

L'anno scorso...*

* ... è andato, finito, caputSiamo giunti al capolinea da circa una settimana; nel frattempo son passati Babbo Natale, Santo Stefano e pure la Befana. C'è chi si volge indietro con tanta nostalgia, chi guarda avanti con ottimistica euforia. 
Ma - sai che c'è? - la domanda è sempre la stessa: "Questa crisi quando cessa?"



Il duemilaCredici è finito col botto.
Lo scorso anno l'ho battezzato così e, te lo dico, ci ho creduto parecchio.
Ho fatto bene? Ho fatto male? Alla luce dei 365 giorni passati, ti confido che il bilancio è in pari.
Una cosa senza infamia e senza lode: tanti progetti portati a buon fine, tanti altri nel cassetto con mille cosine. L'essenziale, ormai l'ho capito, è agire. Questo il primo pensiero che ho fatto al momento del botto finale: quello da "stappo"; il secondo è stato che, infondo, non c'è inizio d'anno senza un degno BOOM augurale.
Poi vada come vada: l'importante è è è... finire (semicit.).

Chissà, quindi, che si stoppi questa crisi nera della tricolore bandiera.
Chissà che il BOOM torni a farsi sentire, ma nelle nostre taschine.
Perché altrimenti il botto lo facciamo noi, visti i quintali di rabbia che ci portiamo addosso.

Ma non ci voglio pensare, no.
Quest'anno lo voglio iniziare all'insegna di due slogan or ora coniati ad hoc:


  • Happy New Y...ou
  • Happy New Year, without fear


Dal giorno 1 il pensiero vola subito alle cose da fare: calendario editoriale, progetto (ri)strutturale, nuovo blog talmente bello da restarci male. No, dai scherzo; qualcosa nel cassetto c'è, ma non l'ho mai lanciato in high-profile e manco voglio iniziare.

In realtà, come sempre, affiderò il mio pensiero alla gente.
Tra una riga e l'altra di questo blog son passati fiumi di cose, ma soprattutto di persone.
Non particelle infinitesimali, ma flussi cerebrali. Conti mai quanti occhi si poggiano sui tuoi pensieri? Ti sei mai chiesto di chi sono quegli occhi, da dove vengono, che storie hanno e cosa stanno cercando?
Io sì; e trovo la cosa più affascinante di mille progetti pianificati. C'è chi vaga sul motore e ti sceglie tra mille persone; chi ti concede fiducia costante e tempo importante; chi ti legge perché vede in te qualcosa di grande. Una bella responsabilità che va al di là di lavoro, scopi, finalità.

Insomma, bloggare per me significa questo.
C'è da sgobbare, ma lo faccio tutti i giorni del resto: lavoro reale, sfera famigliare, sforzo colossale.
Quello che mi chiedo all'inizio di quest'anno without fear è: ciò che scrivo a chi interessa?
Quesito che cerco di risolvere leggendo e rileggendo questo blog. Al solito alcune cose mi stupiscono, altre le scriverei da capo e il solo commento è "peccato!". Risultato riflessivo è una selezione di post che i lettori hanno gradito, ma anche no: alcuni sono tra i miei preferiti, altri meno; ma quest'è lo sporco lavoro di chi dona un po' di sé: lo sai bene anche te.


Blogging e web writing



Copywriting



Social Network



Par(o)lando



Ah... t'aspetto nel CIP su Google Plus, l'esperimento condiviso per scrittori creativi partito nel 2012. Intanto... CIN CIN and welcome to Happy New You!

Visual:
simonedoinel.tumblr.com

Un augurio di Buon Natale

Siamo giunti al momento degli auguri di Natale: da quando ho aperto un blog non c'è cosa che mi renda più orgogliosa. Non si tratta di un'occasione per fare un mero esercizio di stile; anzi, questo è il periodo in cui la potenza della comunicazione si scatena nel pieno della sua essenza. Bello fare gli auguri a tante persone in una volta sola: alcune le conosci appena, altre le "frequenti" di buona lena. Poi ci sono quelle a cui vuoi già un sacco bene; magari non le hai mai viste di persona, non hai scambiato uno sguardo, un abbraccio, un'opinione.
E allora ti affidi al cuore.

Quest'anno ho deciso di farvi gli auguri così come veniva, a costo d'essere banale:

  • una lettera
  • un racconto
  • un calendario

Poche semplici parole per ringraziare tutti d'aver condiviso con me tanti momenti, belli e brutti.
Che dire? Per una volta mi avete lasciato senza parole!
Il duemilaCredici volge al termine. Noi ci "vediamo" nel 2014 più carichi che mai.





Tecniche di copywriting: il "negative approach"

Vuoi diventare un bravo copywriter? 
NON leggere questo post.
Sei già arrivato alla terza riga?
NON fai più parte del club "C'è chi dice NO".


Voglio iniziare questo post con due situazioni dagli esiti opposti che tutti potremmo conoscere.

Situazione 1
Notte fonda senza note.
Lui, bandito incappucciato, cammina guardingo sopra un ponte illuminato.
Tu, novello Sherlock Holmes, intravvedi la sagoma dalla strada buia, ti metti a correre verso il ponte per acciuffarlo ma, sapendo di essere in netto svantaggio, finisci per urlargli a gran fiato: "Fermo là, mani in alto!" Risultato: fallimento dell'inseguimento. Non servono grandi capacità deduttive per capire che, con quell'urlo d'avvertimento lanciato per timore di non arrivare a prenderlo, hai finito per attirare l'attenzione del bandito, ottenendo l'effetto opposto a quello desiderato: la fuga dello stesso verso la salvezza. E la distanza tra lui e te è rimasta la stessa.

Situazione 2 
Lui, figlio, si rifiuta di mangiare la minestra.
Tu, genitore spazientito, lo guardi fisso e gli dici, con tutta l'autorità che riesci a trovare: "Se vuoi morire di fame, fai pure a meno di mangiare". Risultato: vittoria sull'inappetenza. In questo caso, un dubbio sorge spontaneo: forse, più che il tono autoritario, a vincere è stata la minaccia - "Se NON vuoi mangiare fai pure. Vorrà dire che resterai a digiuno". Fatto sta che, con quella frase negativa, hai ottenuto l'effetto desiderato: la mano di tuo figlio che trattiene il piatto. Eppure la minestra è rimasta la stessa.

Conseguenze 1 e 2
Le due situazioni appena descritte ci fanno riflettere sulle loro dirette conseguenze:

1. urlare per attirare l'attenzione non serve
SPARARE CARATTERI URLATI, diciamolo, funziona di rado. Il carattere maiuscolo NON è sinonimo di carattere - per dirla con un gioco di parole di quelli che mi piacciono tanto. Certo, il maiuscolo s'impone. Ma proprio per questo, per quella volontà sfacciata d'imporsi e di attirare l'attenzione, ottiene spesso l'effetto contrario: il pubblico si sente braccato, costretto ad agire, e finisce per sfuggirci tra le righe come un bandito sul ponte illuminato. D'altronde, a chi piacerebbe sentirsi urlare contro ciò che dovrebbe o non dovrebbe fare? La teoria ovidiana: "In amor vince chi fugge" vale anche per la scrittura pubblicitaria. E tu non sei certo quello che segue.

2. Evitare la negazione a tutti i costi potrebbe costare
La negazione è negativa, inutile negarlo - per dirla con una ripetizione di quelle che mi piacciono tanto. C'è da notare, però, che un approccio negativo, se usato con metodo, permette di attirare l'attenzione del pubblico - perfino di "provocare" una sua reazione - senza doversi imporre in modo aggressivo. Più una cosa ci è negata, più vogliamo averla; più ci è vietata, più siamo spinti a farla; più ci è nascosta, più desideriamo scoprirla. Si sa. Meccanismo, questo della negazione e del divieto, che fa "leva" su istinti quali curiosità e desiderio. E cosa c'è di più efficace di curiosità e desiderio per spingere qualcuno a conoscere qualcosa o anche - perché no - ad acquistarla? Poco o niente. Questo il serpente di Adamo ed Eva lo sapeva bene. Che poi, si sa la mela è il simbolo della conoscenza - e se in questa storia la curiosità, più che il gatto, alla fine, uccise l'essere umano poco importa. Certo non è detto che negare o vietare qualcosa, stimoli per forza il desiderio. "Quando la volpe non arriva all'uva, dice che è acerba" scriveva Esopo. [Per inciso sì, lo so, questo post sta diventano uno zoo]. Ma, qualsivoglia cosa affermi la volpe, non dobbiamo mai dimenticare che lei, quell'uva, la vorrebbe eccome. Compito del copywriter, dunque, è quello di sventolarle sotto il naso un frutto proibito, di provocare in lei una reazione, di spingerla a compiere un'azione - che sia afferrare l'uva per mangiarla o una mela per farci una torta (?) poco cambia. Questa è l'unica cosa che, in quanto copywriter, ti deve interessare. E, cosa ancor più interessante, è che puoi riuscire a ingannare la volpe o a ottenere l'effetto del serpente - concedimi queste ardite analogie animaliste - attraverso un uso intelligente dell'approccio negativo. Per il momento tieni a mente ciò che abbiamo detto fino a qua: curiosità e desiderio sono due delle "leve" sui cui fanno affidamento negazione e divieto.

Approccio negativo: andiamo più a fondo
Intendiamoci. Sentirai dire spesso che le parole negative sono da evitare come la peste: mai metterle in un titolo, in uno slogan o nella tag-line di un sito. Reazioni immediate da parte del pubblico sarebbero la fuga o, come minimo, un netto rifiuto. Vox populi vox dei. Lungi da me contraddire professionisti del calibro di Annamaria Testa, che afferma di non usare volentieri l'approccio negativo perché "il più delle volte risulta essere antipatico". E se lo dice una maestra del copywriting come lei, che di certo conosce questa tecnica ben più di me, c'è di che fidarsi. Diamo, quindi, per assodato che ricorrere al negative approach - così si dice in inglese - significa accollarsi un gran bel rischio sul piano strategico e comunicativo. Ma cos'è, di preciso, questo approccio negativo? Chi l'ha inventato? E come possiamo utilizzarlo?

Dalla retorica latina...
Stupisce poco scoprire che l'approccio negativo ha, alle sue spalle, una lunga storia che trova la sua origine nella retorica latina - perché l'avo latino, si sa, ci mette sempre il suo zampino. Nel primo secolo dopo cristo, l'oratore Quintiliano scriveva:

"Esiste un luogo retorico d'affettazione di modestia" perché "il pubblico ha un moto di simpatia per chiunque si trovi in difficoltà".


Come negare tale affermazione? Hai mai notato quanto siamo portati a empatizzare con le persone in difficoltà? E quanto siano astuti quelli che, per evitare lo scontro frontale, imparano ad anticipare le critiche degli altri, rivolgendole loro, per primi, contro se stessi? E dei falsi modesti, invece, che ne pensi? Se ho usato gli aggettivi "astuti" e "falsi", non è certo un caso. Perché il più delle volte, in un caso e nell'altro, si tratta di espedienti comunicativi tesi ad attirare maggiori consensi. Eppure, la maggior parte delle volte, non possiamo evitare di provare un moto di simpatia istintiva - per non dire di empatia - verso questi antieroi costruiti a tavolino con cui ci identifichiamo facilmente. Ovvio, il "piangersi addosso" non deve mai scadere nel lamento continuo o nell'insensato vittimismo. Tuttavia, è indubbio che, oltre ai già citati curiosità e desiderio, ci siano altre "leve" capaci di sedurci, trascinarci, convincerci, provocarci una reazione, spingerci all'azione: autocritica e autoironia come sinonimo di modestiaumiltà, onestà e serietà sono indubbiamente fra queste. Per dirla con Meyer:

"[...] Colui che parla male di se stesso rischia di sedurreconvincere l'uditorio: non solo scuote l'interlocutore, ma si assesta quei colpi che altri avrebbero voluto dargli".


Ammettere i propri difetti. Negare di essere perfetti. Negarsi. Tutte cose che attirano simpatia, empatia, curiosità e desiderio. Questo è il senso. E, in linea di massima, è vero: amiamo seguire chi ci sfugge e desideriamo capirlo meglio. 

... all'azienda
Poniamo il caso che un'azienda voglia ottenere lo stesso livello di coinvolgimento, emotivo e mentale, da parte del suo pubblico di riferimento. E poniamo il caso che questa azienda:

1. riconosca di avere più di qualche minus (negativo) rispetto alla concorrenza 
2. scelga di mettere quei minus in rilievo, dando così sfoggio di autocritica e autoironia (approccio negativo)
4. riesca, attraverso questo approccio negativo, a volgere i minus in plus  
5. ottenga, infine, l'effetto positivo e desiderato: coinvolgere il pubblico su più livelli diversi

L'azienda che sceglie il negative approach mette in piazza i suoi difetti - li ammette - sperando così di apparire umile, seria, onesta, interessante, perfino simpatica. Rischia il tutto per tutto e, proprio per questo, spera che il pubblico la premi, che legga il messaggio negativo in modo positivo, che ne sia incuriosito, attratto, provocato, spinto a compiere un'azione d'acquisto o di semplice informazione. Scommette sulle leve "umane" della negazione, augurandosi che il suo pubblico di riferimento risponda in modo altrettanto umano. Certo, quest'azienda coraggiosa si accolla il rischio di mettere in rilievo i propri limiti, cosa ch'è sempre un'arma a doppio taglio. C'è chi non coglie certe sottigliezze, concentrandosi solo sui difetti. Chi non apprezza affatto l'ironia, leggendoci una mancanza di serietà. E c'è chi a un "NO" risponde sempre e comunque con un "NO", trincerandosi dietro un muro. Insomma, chi decide di comunicare in negative approach deve fidarsi del proprio istinto, confidare nel proprio pubblico e - ultimo ma non ultimo - affidarsi a dei professionisti di un certo calibro. 

Casi celebri: gli annunci stampa per Volkswagen e Avis
Vero campione nella tecnica del negative approach è William Bernbach, capostipite della pubblicità contemporanea. Posizionandosi tra la USP (Unique Selling Proposition) di Reeves e la UEP (Unique Emotional Proposition) di Burnett,
Bernbach fa di tale approccio, uno strumento retorico vincente. Ecco due famose campagne che portano la sua firma e che, ancora oggi, sono ritenute tra le dieci migliori campagne pubblicitarie al mondo.

1. "THINK SMALL"
Il fine è quello di mettere in risalto i vantaggi del maggiolino Volkswagen rispetto alle auto - grandi e costose - preferite dagli americani. Ben consapevole dello svantaggio iniziale, Bernbach rischia il tutto per tutto e, invece di esplicitare dei pregi che difficilmente verrebbero recepiti da un pubblico abituato a ragionare sugli status symbol, decide di puntare sui difetti (approccio negativo > essere un'auto piccola ed economica) facendoli passare implicitamente come pregi (da negativo a positivo > essere piccoli e meno costosi diventa un vantaggio). Ovviamente, perché il messaggio vada a buon fine, Bernbach ha bisogno di un claim potente, che punti a cambiare il punto di vista "mentale" del pubblico nei confronti del prodotto "auto", a rovesciare del tutto la sua prospettiva. Think small. Una pagina bianca per far apparire l'auto in alto a sinistra più piccola. Una body-copy persuasiva, esaustiva, per sottolineare e spiegare meglio l'approccio negativo del claim. Ed ecco qui uno degli annunci stampa più geniali di sempre.


“La nostra automobilina non è più tanto una novità. Le due dozzine di studenti del college che cercano di strizzarcisi dentro non ci sono più. Il ragazzo del distributore non chiede più dove sia il tappo del serbatoio. Nessuno si meraviglia più della sua forma. Molti che guidano già da un po’ il nostro macinino non pensano più che 32 miglia con un gallone siano un risultato eccezionale. O che sia eccezionale usare cinque pinte d'olio invece di cinque quarti. O non avere necessità dell’antigelo. Perché quando ci si abitua a queste cose, poi, non ci si fa più tanto caso. Tranne quando riesci a strizzarti in un parcheggio minuscolo. O quando rinnovi un'assicurazione piccolina. O quando paghi il conto al meccanico, anch'esso piccolino. O quando rivendi la tua vecchia VW per prenderne una nuova. Pensaci su."

Ho sottolineato in nero i termini negativi e in viola quelli positivi. Certo come vedi, i primi sono di più (d'altronde stiamo parlando di "approccio negativo"). Ma, al di là di questo, vorrei attirare la tua attenzione sulla maestria Bernbach nell'utilizzare termini simili in modo diverso: da negativo a positivo e viceversa. Eh sì... il senso delle parole dipende sempre dal contesto in cui sono inseriteUna body-copy magistrale, questa, che pare strizzare l'occhio a una linea di pensiero condivisa dai più per poi ribaltare il punto di vista sul finale e convincere quei più che forse quella linea di pensiero non è giusta. Altro particolare è l'uso del diminutivo in forma vezzeggiativa: macinino, automobilina e quel "piccolino" che diventa ironico se abbinato al costo dell'assicurazione e del meccanico. Per non parlare del passaggio di persona da un generico "loro" a un più diretto "tu/voi". O del manzoniano "due dozzine di studenti" per sottolineare che i clienti Volkswagen, oggi, sono diventati molti di più. O dell'uso rafforzativo del "più" accanto all'avverbio negativo "non". O, viceversa, dell'uso oppositivo di parole positive quali "eccezionale" e "novità", messe bene in rilievo nei punti chiave del testo - la prima al centro, la seconda all'inizio e alla fine. O, ancora, del... 

... va be' lasciamo perdere, ché le cose da dire su questo annuncio stampa sarebbero tantissime e rischierei di perdere il filo sul nostro piccolo, carissimo - non certo in senso monetario - maggiolino. Senz'altro, rispetto alle auto che rispondono allo standard americano del "più grande è lei, più figo sono io", il maggiolino rimane questo: un'auto piccola ed economica. Ma tu, caro americano che ami tanto le auto grandi e care, hai mai pensato a quanto potrebbe convenirti il piccolo"Pensa in piccolo", cambia il tuo punto di vista, e non avrai più problemi di parcheggio né di assicurazioni costose né di consumi esorbitanti. "Pensa in piccolo" e ti assicurerai un gran vantaggio. 

2. "SIAMO SOLO IL NUMERO 2 NEL NOLEGGIO AUTO"
Il fine è quello di posizionare Avis dietro al "gigante" Hertz - cosa azzardatissima, dato che, al tempo di questa campagna pubblicitaria, l'azienda è al collasso. Di nuovo, Bernbach capisce che nascondersi dietro a un dito sarebbe controproducente. Di nuovo, i minus (negativo > essere "solo secondi") sono messi in risalto per diventare dei plus (positivo > essere "secondi" è meglio, perché bisogna mettercela tutta). Per rimanere in corsa - tanto per ricorrere a un'analogia calzante - Avis deve impegnarsi a fornire dei servizi migliori. Essendo "solo seconda", non può certo permettersi di distrarsi: deve mettere più cura nelle piccole cose, il che significa massima attenzione verso il cliente. Questo è il senso dell'annuncio. Avis, cosa rara per una campagna pubblicitaria, ammette i suoi limiti in modo schietto, sincero, autoironico. Ed è proprio l'ammissione di questi limiti a fare di uno 
svantaggio - NON essere leader di mercato - un vantaggio. Ma un vantaggio per chi esattamente? Per il cliente, ovvio. Con l'approccio negativo, Bernbach veicola un'immagine positiva dell'azienda e la piazza al "secondo" posto sul mercato, rendendola prima concorrente diretta del "gigante" Hertz.  Per Avis questa, più che una verità conclamata, diventa una chiara dichiarazione d'intenti.


"Siamo solo il numero 2 nel noleggio auto. Quindi perché venire con noi?" Di nuovo, è compito della body-copy spiegare il claim incentrato sull'approccio negativo. Basta scorrere fra le righe del testo per notare la presenza del "can't": il verbo "potere" in forma negativa è talmente potente da comparire come claim in annunci stampa successivi:



Casi recenti: lo spot di Ceres
L'approccio negativo, non mi stancherò mai di dirlo, è una tecnica rischiosa che richiede metodo, esperienza e che, a seconda del "tono di voce", può risultare più o meno aggressiva. Indubbiamente gli annunci di Bernbach hanno un equilibrio perfetto: il tono è tanto deciso, quanto pacato; tanto umile, quanto schietto; tanto serio, quanto ironico. Adesso, però, ti chiedo di dare un'occhiata a questo spot di Ceres per capire bene le differenze:


L'approccio negativo, qui, suona decisamente più aggressivo e provocatorio... non ti pare? A te cosa stimola questo video? Simpatia? Empatia? Interesse? Curiosità? Desiderio? Probabilmente la risposta dipenderà dall'età. I più giovani saranno portati a identificarsi con i festaioli e a farsi una risata. I meno giovani, invece, s'immedesimeranno nel vicino di casa che, burbero, isolato e disperato, si trova a sbattere la testa contro il muro. Probabilmente penserai che il pubblico di Ceres siano i primi; eppure, a ben guardare, il protagonista dello spot sembra essere il secondo. Guarda, facciamo così: la prossima volta che i tuoi vicini di casa daranno una festa, stappati una bottiglia di Ceres e pensa a ciò che succede...

Proporre con cura: provocazione, persone e CTA
Ormai avrai capito che con l'espressione negative approach non ci si riferisce solo a un contenuto con una negazione al suo interno ma anche, come sta a significare l'espressione letterale, a una tecnica di comunicazione strategica tesa a mettere in risalto i minus (gli svantaggi, i punti di debolezza) di un brand, di un servizio e/o di un prodotto per coinvolgere il pubblico su più livelli. Per finire, aggiungo che l'approccio negativo funziona bene anche per condividere un contenuto. Tutti possiamo farne uso. Sui social network, in particolare su Twitter e su Facebook, capita spesso di leggere Call To Action (Chiamata all'Azionedove il negative approach la fa da padrone. L'intento è lo stesso: spingere qualcuno a fare qualcosa come, ad esempio, cliccare su un link, condividere un post, commentarlo o rispondere al commento. Ricordi quali erano le prime due leve di negazione e divieto? Esatto. Curiosità e desiderio. Tutta roba di serpenti, volpi e gatti da due soldi - che alla fiera dell'est mio padre comprò (okay, sto sclerando). Chi scrive spera che il divieto spinga chi legge a fare l'esatto contrario. Lo stesso meccanismo comunicativo per cui capita di rispondere in modo affermativo a una domanda negativa tipo quella che ti ho appena fatto sotto il video di Ceres - e attenzione che risposta negativa a domanda negativa = doppia negazione e doppia negazione = affermazione. Sì, lo so, la lingua è un bel po' bastarda, rassegnamoci. Lo stesso meccanismo per cui: "Se vuoi essere triste, NON mangiare la Nutella" e tu passi il pomeriggio a intingerci il dito. "Se vuoi essere essere libero, NON devi uscire" e tu scappi dalla finestra (sì, l'ho fatto). "Se vuoi morire di fame, NON mangiare la minestra" e tu finisci per scavare il fondo del piatto col cucchiaio. 

Concludendo
Inutile negarlo: le cose proibite attraggono, affascinano, stimolano il desiderio, spingono a porsi delle domande sul perché siano proibite e a valutare se valga o meno la pena cercare le risposte. Per gli antichi greci tra i peccati più gravi c'erano la tracotanza e la superbia. Ulisse pagò con l'Odissea l'errore di sentirsi più saggio - e più furbo - degli dei. Io preferisco pensare che siamo animali evoluti con alcuni rimasugli d'istinti biblici, primordiali. Esseri umani che primeggiano, pur essendo rimasti sempre un po' primati. Ad esempio, poniamo il caso che io inizi un post così:

Vuoi diventare un bravo copywriter? 
Allora NON leggere questo post. 
Sei già arrivato alla terza riga? 
Allora NON fai più parte del club "C'è chi dice no"

Tu cosa faresti? 
Lo leggeresti fino in fondo o preferiresti rimanere con la curiosità di sapere cosa ci ho scritto? :-)*